lui nasce, io non ci sono

foto (99)Su una bacheca Facebook ho letto un pezzo sul parto e mi è venuto da piangere.

È già da un po’ di tempo che ripensando al mio parto io piango.
È stato l’evento più rivoluzionario della mia vita, e io lo ricordo con un senso di privazione che mi gratta il cuore.

Volevo partorire a casa.
Mio figlio, però, era podalico.
L’ostetrica che mi seguiva mi ripeteva «connettiti con tuo figlio, pensa cosa gli manca per girarsi e cerca di darglielo».

Mi fece piangere davanti alle altre due donne del corso pre-parto che facevamo da lei.
Poi pensai che Giovanni non aveva qualcosa mancante, ma qualcosa in più: un’autonoma volontà di rimanere podalico, che io potevo contrastare o assecondare.

Quest’idea che lui sia diverso da me e abbia il diritto di essere quel che è mi è sempre stata molto d’aiuto. Era una bella idea. L’ho scoperto quando mio figlio ha avuto una vita al di fuori del mio corpo.

Così, anche se avevamo preso un appuntamento all’ospedale di Gavardo per una manovra di rivolgimento manuale, io sapevo che non ci sarei mai andata. Ma era meglio avere l’appuntamento anziché no, e quindi l’avevo preso.

Giovanni ruppe le acque alle trentaseiesima settimana, una domenica mattina. Il giorno prima eravamo andati a comperare il passeggino. Due giorni dopo c’era l’appuntamento a Gavardo. Il mio ginecologo si era fratturato una gamba e non mi aveva mai dato il suo numero di cellulare.

Il giorno in cui mio figlio nacque mi ero alzata una prima volta alle sette per andare in bagno e poi mi ero riaddormentata.
Di notte avevo avuto contrazioni, ma essendo abituata alle coliche addominali ci avevo dormito sopra senza farla troppo grande.

Alle undici tornai in bagno, e ruppi le acque quando mi trovavo in una posizione per la quale non bagnai niente.

Pensai che mio figlio mi aveva lasciato dormire di notte, che mi aveva consentito di riaddormentarmi alle sette, e che aveva scelto con rispetto il momento in cui rompere le acque.
Mi confermai nell’idea che non gli mancava proprio niente, e che se era podalico era perché gli andava bene così.
L’immaginazione che avevo di quel che era successo dentro di me era che lui aveva rotto il sacco amniotico con l’unghietta dell’alluce destro.

Chiamai Marco. Gli dissi «ci siamo, oggi conosciamo Giovanni». Gli chiesi un caffè, «perché chissà per quanti giorni non ne potrò bere uno decente». Mi feci una doccia. Telefonammo all’ospedale per capire se dovevo oppure no transitare per il pronto soccorso.

Sulla strada verso l’ospedale la città mi era sembrata un altro luogo, tutto mio. Continuavo a pensare «oddio, sto per andare a conoscere mio figlio. Oddio, adesso vedo chi è mio figlio. Oddio, fra poco vedo la faccia di mio figlio».

Ho suonato il campanello della stanzetta in cui mi avevano detto di andare.
«Ho rotto le acq…», dissi al citofono.
«Si sieda, arriviamo».
Clic.

Dopo un po’ eravamo ancora da soli.
Suonai di nuovo.
«Ho rotto le acque e sono alle trentaseies…».
«Le ho detto di sedersi e di aspettare».
Clic.

Niente.
Aspetta e spera.
Suonai per la terza volta.
«Ho rotto le acque, sono alla trentaseiesima sett..».
«Ho capito: adesso arrivia…».
«No! Sono alla trentaseiesima settimana e mio figlio è podalico!».
«E cos’aspettava a dirlo?», mi ha chiesto la donna dall’altra parte.
«Che mi lasciaste il tempo di farlo», volevo rispondere. Non lo feci, perché ero felice, perché mio figlio stava per nascere, perché ero stanca di avere a che fare con pezzi di istituzioni sordi e arroganti e volevo far finta di non avere sentito.

Poco dopo mi fecero entrare in ambulatorio.
Mio marito fuori.
Posizione ginecologica, ginecologa arcigna puzzolente di fumo.
Lei si china verso di me, misura l’apertura del parto, «sei centimetri», mi dice. «Peccato che sia podalico, avrebbe partorito in poco tempo».

Mia madre mi ha sempre raccontato che io sono nata in venti minuti, non ho mai avuto paura del parto e l’ho sempre atteso come una cosa emozionante alla mia portata.

La puzza di sigaretta di quella ginecologa mi stava facendo venire da vomitare.
In quel momento un nuovo fiotto di liquido amniotico investì la ginecologa, che non poté fare in tempo a mettersi in salvo.

A Giovanni non mancava niente.
Giovanni mi aveva lasciato dormire con le doglie.
Giovanni mi aveva lasciato riaddormentare alle sette.
Giovanni aveva rotto le acque mentre io mi trovavo sul wc.
Giovanni aveva capito che quella ginecologa era una stronza.

Mi portarono in una stanza per il monitoraggio.
Mi misero la cinghia intorno alla pancia.
Mio marito fuori.
Io ero in compagnia del battito del cuore di mio figlio, e pensai che mi poteva anche bastare.

Ogni tanto i led della macchina del monitoraggio raggiungevano la zona rossa.
Quando entrò una donna (un’ostetrica? Sì, ma nessuno pensò di dirmi chi erano le persone con cui entravo in contatto) le chiesi cosa significava quel rosso.
«Niente», fu la risposta.
«Come nient…?», chiesi. Ma la donna era già uscita.

Quando la donna rientrò, mi chiese che lavoro facevo.
Le dissi che facevo la giornalista.
«Ecco», disse. «Allora visto che è una giornalista scriva la verità, invece di scrivere le solite cazzate che scrivete voi giornalisti: scriva che non è vero che nascono pochi bambini. Oggi è domenica e siete qua in dieci in attesa di partorire».
Volevo chiederle scusa per aver scelto male il giorno.

Entrò un’altra donna con un rasoio monolama.
Monolama.
Mi depilò, e non fu bello. Il cuore di Giovanni batteva e mi piaceva.

Entrò una donna ancora. Bionda.
«Sono l’anestesista», mi disse. «Come va?».
Mi sembrava di sognare. Qualcuno si interessava a me.
«Stia tranquilla: andrà tutto bene. Fra poco le faremo l’epidurale».

Entrò la ginecologa stronza. Puzzava ancora di fumo. Aveva fumato nel corridoio fuori dalla stanzetta dov’ero io.
Le diedi il plico delle mie analisi.
Le ultime le avevo fatte il venerdì.

«Mmh», disse lei. «Che cazzo le hai detto? Che le farai l’epidurale?». Parlava all’anestesista.
«Non mi farete l’epidurale?»‚ chiesi.
«Sono io che decido che anestesia si fa, hai capito?». Parlava all’anestesista. «Ha mangiato o bevuto qualcosa?». Parlava a me.
«Ho bevuto mezza tazzina di caffè più di due ore fa».

Se ne andò.
L’anestesista mi fece una carezza sulla testa.
«Perché non posso fare l’epidurale?», domandai.
«Non si preoccupi. Ora vediamo».

Arrivò un’altra donna. Mi fece mettere in piedi.
Aveva in mano un tubicino.
«Signora, dobbiamo metterle il sondino naso-gastrico».
«Perché?», chiesi.
«Perché ha bevuto il caffè e potrebbe vomitarlo dopo l’anestesia».
«Il caffè? Anestesia epidurale? Ma mio marito può stare con me?».
«Venga».

Fu veramente brutto.

Mi portarono verso la sala parto.
Entrando, mi domandai se e quando la ginecologa con la quale avevo sperato di partorire a casa mia sarebbe arrivata per assistere al parto.
Avevo chiesto a Marco di chiamarla quando avevo saputo che non sarebbe potuto entrare in sala parto.

C’era parecchia gente in sala parto.
Dissi solo «mi raccomando, siamo nelle vostre mani».
Mi misero una mascherina trasparente e io respirai.
Era aria molto fresca.
L’ultima cosa che vidi era un prato sconfinato di erba verdissima. Il vento piegava i fili, il sole li rendeva lucidi.
Quel prato non l’avevo mai visto. Lo vidi in Irlanda la prima volta che ci andai.

Quando mio figlio nacque, io non c’ero.
Mi risvegliai dopo un po’.
Il parto si era aperto prima dell’intervento, il mio utero era dilatato e si contraeva per tornare alle sue dimensioni normali. Ma l’avevano tagliato, e insieme all’utero avevano tagliato i muscoli e la pelle. Mi faceva un male terribile e piangevo.
Mia suocera disse: «Guarda che stai urlando. Conosco un sacco di donne che hanno avuto il cesareo e nessuna è stata male come te».

«Dov’è mio figlio? Come sta?», chiesi a un uomo.
«In incubatrice», mi rispose quell’uomo.
«Portatelo subito fuori di là», dissi. «Mio fratello ci ha rimediato un’emorragia cerebrale. Portate mio figlio fuori di là».
Marco raccontò.
L’uomo disse che era successo tanti anni fa e la scienza aveva fatto passi da gigante.

E poi, alla fine, Giovanni arrivò a me.

Ma quando lui è entrato in questo mondo io non c’ero.
Non ho potuto guardarlo, non ho potuto dirgli amore mio sei qui, non ho potuto sapere com’è un figlio quando esce dal mio corpo.
Un’intera gravidanza a vivere come essere umano uno e bino, e un parto vissuto come essere umano al grado zero: senza sensazioni, senza odori, senza colori, luci, vista, tatto; senza percezione di me, senza percezione di mio figlio.

Per concepire Giovanni abbiamo impiegato una settimana.
Un fratello o una sorella non sono mai arrivati.

La prima a farmi notare che il mio corpo aveva vissuto il parto come un trauma che poteva non voler ripetere fu un’insegnante di yoga.
L’insegnante di yoga non conosceva l’osteopata che mi disse la stessa cosa.
L’osteopata non conosceva il suo collega che mi disse la stessa cosa.

Quando mio figlio entrò nel mondo io non c’ero; ero fuori dal mondo.

Tutto considerato – per il suo prima, per il suo durante e per il suo dopo, in ospedale – il parto è stata l’esperienza più violenta che io abbia fatto.

Sono felice che mio figlio sia nato senza fatica. Ma prima di realizzare che mio figlio era mio figlio io ho impiegato del tempo. E ricordo quel momento di innamoramento, di rapimento, di gioia travolgente, come un pallido succedaneo di ciò che sapevo avrei avuto il diritto di vivere.