allodole, specchietti e firme prestigiose

In questo momento (è sera tardi), le persone che su Facebook hanno rilanciato questo pezzo di Repubblica.it sulla giornalista iraniana liberata sono 278.

Leggiamolo, allora.
A cominciare dal titolo in home page.
Eccolo qui:

Il titolo dice due cose: che si tratta di una «nuova vittoria dei difensori di Sakineh», come se Shiva Nazar Ahari fosse difesa dagli stessi legali di Sakineh, e che la giornalista è stata «liberata» punto e stop.

Ora.
Se si scorre il pezzo (lasciandosi sfidare dalla punteggiatura a tratti avventurosa), non si troverà da nessuna parte la notizia che la giornalista «liberata» sia difesa dagli stessi avvocati della donna della quale è stata decisa la lapidazione.


Disorienta ulteriormente il fatto che il testo nella pagina interna abbia un titolo diverso, che non parla di «nuova vittoria» ma di «nuova battaglia».
Cosa diversa, senz’altro. Eppure non meno ambigua dell’altra: perché non viene detto se la «nuova battaglia» alla quale gli avvocati di Sakineh sono chiamati riguardi Sakineh oppure Shiva Nazar Ahari.

Quanto al resto, nel titolo della home page si fa – sì – riferimento a una cauzione, però il titolo non dice che si tratta di un rilascio provvisorio, in attesa di un nuovo processo, come invece viene detto nel pezzo all’interno.

Vero che in un titolo non si può sempre dir tutto e a volte bisogna forzare.
Ma da addetta ai lavori mi domando una cosa: non è che suggerire la possibilità che si sia trattato di una liberazione tout court aumenti il «valore di mercato» della petizione che Repubblica ha lanciato per salvare la vita a Sakineh?

Proseguiamo nella lettura dell’articolo all’interno (virgole originali, ndr).

La giovane giornalista scomoda al regime, rischia la pena capitale per l’accusa di voler condurre “una guerra contro Dio”, detto “Moharebeh” che, secondo la legge islamica iraniana, è un reato punibile con la morte. Grazie alla mobilitazione internazionale la pena al momento è sospesa.

Al di là del fatto incidentale che tutti ci auguriamo di non esserci persi per strada la notizia che esiste il dio «Moharebeh» che per la legge islamica iraniana è punibile con la morte, apprendiamo che la pena di morte – che in effetti non viene detto le sia mai stata comminata – le è stata sospesa grazie alla mobilitazione internazionale.

Ma l’articolo continua (punteggiatura originale, ndr).

Shiva Nazar Ahari era stata arrestata una prima volta il 14 giugno 2009, sei mesi dopo, il 21 dicembre 2009, era stata fermata una seconda volta mentre andava ai funerali del Grand Ayatollah. Da allora era chiusa nel carcere di Envin, per lo più in isolamento, accusata anche di aver legami con la Mujahideen Khalq Organization, un gruppo di esiliati considerati organizzazione terroristica anche dagli Usa.

Lei però aveva sempre negato ogni collegamento con questo gruppo, secondo quanto hanno fatto sapere dal Committee of Human Rights Reporters, di cui Harari è membro.

Ora.
Chi è Harari?
Lui?
Lui?
Lui?
L’articolo non parla in nessun altro luogo di questo Harari.
È possibile che questo ambiguo vezzo di evitare l’articolo femminile davanti ai cognomi delle donne (come se il «la» oggettivasse la donna di cui si parla…) nasconda un lapsus, e che questo Harari sia in realtà Shiva Nazar Ahari.
Però non lo so.

Dice poi l’articolo:

Per la sua (di Shiva, ndr) libertà si sono mobilitati gruppi per i diritti umani, giornalisti e intellettuali, Amnesty International e lo stesso movimento pro-Sakineh fondato da Daniel Salvatore Schiffer, che hanno raccolto la somma di denaro.

“Shiva fa parte di quelle donne iraniane per le quali ho lanciato ultimamente un nuovo appello su varie testate europee – spiega Schiffer -, con numerosi e prestigiosi firmatari. E’ stata provvisoriamente liberata in attesa di un nuovo giudizio: una piccola vittoria che per noi rappresenta molto”.

Qui apprendiamo altre due cose.
La prima è che la liberazione è «provvisoria», in attesa di un nuovo giudizio (ma su questo avevo già malignato).

La seconda è che sul mercato della «democrazia della paletta» ci sono palette che valgono di più (i «prestigiosi firmatari») e palette che valgono di meno (i «numerosi firmatari»).

In sé, niente di male.
Salvo però il fatto che secondo me la scelta di un aggettivo come «prestigiosi» (fatta la tara di una sempre possibile traduzione un tanto al chilo magari proveniente da qualche agenzia internazionale) materializza e dipinge istantaneamente il fondale su cui qui ci si muove.

E il fondale – ahimé – a me pare quello dello spettacolo.
Un «Live Aid» per le donne iraniane (per alcune, veramente).

La questione si rende ancor più evidente poco più avanti.

Continua la battaglia civile per salvare Sakineh Mohammadi Ashtiani e gli altri 14 cittadini in attesa della lapidazione.
Sono arrivati a 140mila i firmatari che hanno aderito all’appello di Repubblica.

Oltre a 7 premi Nobel, tra i quali Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco e Luc Montagnier, si è aggiunta anche la firma di Frédéric Mitterand, ministro francese della Cultura e della Comunicazione.

Eccoci, dunque.
Com’è «prestigiosa», la battaglia che facciamo insieme a sette premi Nobel.

Ma – al di là del sacrosanto diritto di Sakineh a non essere lapidata – io non posso non domandarmi quale idea di democrazia sottintendiamo nel momento in cui accettiamo di attivarci in una petizione qualunque la cui presumibile efficacia dipende dal prestigio e dalla visibilità dei firmatari.

A me sembrerebbe quasi che venga sottintesa una «democrazia della moda» in cui l’obiettivo principale è rendere il più possibile spettacolare l’appeal (giornalistico e politico) di una causa.

Benissimo, per carità.
Ma questa cosa – che può perfino avere una sua efficacia – si chiama marketing.
Che a nessuno venga in mente di chiamarla politica, e forse nemmeno «mobilitazione civile».
Forse.

E ora, le rivendicazioni (copiatura originale, ndr).

E intanto l’appello si allarga perché si allarghi anche agli altri condannato la richiesta di liberazione.
Già rilanciato dal settimanale francese Le Nouvel Observateur (il cui sito rimanda a Repubblica per le adesioni), l’appello è stato ripreso anche dal quotidiano belga Le Soir e dal quotidiano lussemburghese franco-tedesco Tageblatt.

Visto che bravi?
Ci riprendono.
Torniamo sempre lì, insomma: al fondale.

E infine (virgole originali, ndr):

La donna (Sakineh, ndr) è però in una condizione psicologica drammatica.
Ieri il figlio Sajjad, in occasione di una manifestazione in piazza a Parigi, ha denunciato con una telefonata, la situazione.

Anche l’avvocato della donna, Houtan Kian, ha avvertito che “la lapidazione non è stata ancora sospesa, contrariamente a quanto afferma il regime. Non ho ricevuto alcuna notifica ufficiale“.

Un momento.
Ma se c’è una «nuova vittoria dei difensori di Sakineh», e se questa «nuova vittoria» è la liberazione (provvisoria) della giornalista, qual è mai stata la «prima vittoria», se la lapidazione di Sakineh non è stata ufficialmente sospesa?

E non è singolare che una notizia così grossa – non è vero che la lapidazione è stata effettivamente e ufficialmente sospesa – venga data alla fine dell’articolo e senza alcun richiamo nel titolo?

Non troppo, temo, se accettiamo l’idea che enfatizzare questo terribile risvolto potrebbe equivalere a dichiarare pubblicamente la tragica insufficienza delle firme «prestigiose» in calce all’appello del quotidiano che, per la proprietà transitiva delle firme e dei premi Nobel, ugualmente «prestigioso» va ragionevolmente presunto.

E veramente infine.
Nessuno di quei 278 che hanno rilanciato il pezzo su Facebook s’è accorto di niente, leggendo l’articolo?

Davvero a chi firma le petizioni della «democrazia della paletta» interessano principalmente la nebulosa di senso e il pigro accaparramento identitario che attorno a una «causa civile» si riescono a creare?

Al di là del fatto che mi auguro con tutto il cuore che la petizione ottenga il suo scopo già fra due minuti, io temo di sì.

Temo che la «democrazia della paletta» sia un veicolo di facile simulazione comunitaria.
E sono sicura – mi va di ripeterlo – che tutto questo con la politica non ha assolutamente niente a che vedere.
Sono specchietti per le allodole.

E chi li maneggia non si limita – io credo – a riempire un vuoto che altri hanno creato (quello della politica, intendo).
Chi li maneggia allarga quel vuoto di giorno in giorno, dolosamente (molti) o per l’ignavia tipica di chi, non avendo mai fatto politica, pensa che la politica sia una cosa sporca e le petizioni una cosa trendy che cambierà il mondo.

Sì.
Certo.
Come no.
Intanto andiamo a fare un sonnellino, dai.
Poi domani ci alziamo e vediamo se per caso siamo riusciti a far progredire la nostra rivoluzione pacifica di gente perbene.
Un passettino alla volta, su.

Perché «i firmatari» pensano di essere concreti.
Anche quando la loro paletta è virtuale, proprio come la democrazia che hanno in mente.
Non è strano?