un vecchio articolo

dall’Arena del 4 settembre 2004 (di Federica Sgaggio)

Solo il silenzio di una foto sa dare voce alle parole.

Abbiamo visto. Dopo che si è visto, non serve altro. Le immagini riescono là dove le parole non possono: restituire una lettura manichea e radicale degli eventi. Niente come una foto sa muovere i fili del linguaggio binario di cui si nutre la contrapposizione fra “bene” e “male”. Ma niente come un’immagine sa mostrare la complessità, l’insensata e inevitabile contemporaneità delle cose che accadono: mentre una donna accarezza la faccia di un figlio che ha vissuto senza consolazione tre giorni e due notti di orrore, china su un corpo che di quell’amore non sente più niente, altri piedi calpestano lo stesso suolo, altre mani si muovono nello stesso spazio. Ed è uno spazio così piccolo che nessuno crederebbe possa contenere tutta quella pluralità di sentimenti.

Le nonne raccontano che una volta i bambini morivano spesso, facilmente, per malattie che non lasciavano scampo anche se non avevano nemmeno un nome da lasciare a ricordo. Morivano così, senza un vero perché. E se una madre avesse pensato che quel figlio aveva il diritto di diventare adulto, ce n’era un’altra a ricordarle che non si dava alternativa.

Ma nei bambini che sperano di diventare grandi è sacro proprio il desiderio di diventare grandi; è sacra la fiducia nell’eternità dei loro giorni; è sacra la convinzione che arriverà un momento in cui della vita avranno compreso tutto cio che dev’essere compreso; avranno imparato tutto ciò che c’è da imparare; letto e visitato tutto quello che esiste da leggere e da visitare. In tre giorni e due notti i bambini della scuola di Beslan hanno avuto tutto il tempo di attraversare l’angoscia fra i due estremi: quello del “crescerò, imparerò” e quello indicibile del “non posso fare nient’altro che realizzare l’incredibile: che sono morto mentre ero bambino, e che mia madre e mio padre non hanno fatto niente”.

Sulla pelle della mano della madre che sfiora la fronte di quell’essere umano che fu suo figlio c’è tutta la consapevolezza del macabro valzer danzato da quel morto bambino. Ma le mancano le forze per pensarlo, le parole per dirlo, e un cuore che la ascolti. Ecco perché ha senso pubblicare quella foto: per far parlare quella donna riconoscendole il diritto di non cercare né la forza per pensare né le parole per dirlo.

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