il giornalismo secondo castelli

Ho appena visto un pezzetto della trasmissione di Santoro.
Tra le varie affermazioni che mi sono sembrate agghiaccianti, volevo segnalarne due, entrambe pronunciate da Roberto Castelli.

Uno. Castelli chiede a Travaglio: «Ma cosa dice ai suoi figli? Che per mantenersi parla male della gente?». Ecco. A parte il tono, che a me sembra un tono volgare: che idea di giornalismo c’è, dentro la locuzione «parlar male della gente»?
All’interno dei confini culturali sottesi da affermazioni di questo genere, chi è il giornalista?
Colui che «parla bene» delle persone?
Che spazio c’è per restituire al giornalista l’identità che gli apparterrebbe, cioè quella di un professionista che parla di ciò che riesce a verificare su fatti e circostanze ragionevolmente ritenuti di pubblico interesse?
Anche qui: lo so che questa è teoria. Ma è una «teoria» tenendosi fedeli alla quale centinaia di miei oscuri e stanchi colleghi cercano ogni giorno di lavorare respingendo le pressioni che vengono da dentro e da fuori. E non c’è niente da ridere.

Due: Castelli chiede a Paolo Berizzi, un giornalista che s’è finto straniero clandestino ed è stato assunto in nero, senza contributi e senza garanzie, di dove sia. «Non so da dove venga lei», gli dice (scoprendo che viene da Bergamo). «Nel nord c’è gente onesta, imprenditori onesti».
Appreso che il numero di imprenditori che arruolavano in nero era cospicuo, e forse incompatibile con una presunzione di onestà geneticamente e territorialmente giustificata, Castelli prosegue: «E allora», dice a Berizzi, «invece di scriverci sopra e fare i soldi, chiami gli ispettori del lavoro e denunci le irregolarità».
Ancora una volta: che idea di giornalismo è? Che idea di Stato è?


Fino ad ora, in questo Paese l’esercizio dell’azione penale è ancora obbligatorio.
Ciò significa che il giornalista deve tranquillamente scrivere o dire quel che sa sulla testata per cui lavora, e che se quel che sa e scrive/dice è un fatto che può avere rilevanza penale, allora quel suo pezzo o quel suo libro – e non necessariamente una denuncia: è stupefacente che questa circostanza possa sfuggire a un ex ministro della Giustizia – diventa ipso facto una notizia di reato su cui un pubblico ministero è obbligato a indagare, senza nessun bisogno che il giornalista si trasformi in una sorta di ufficiale di polizia giudiziaria al servizio della procura della Repubblica.

Il giornalista non è un delatore che prende carta e penna e scrive esposti da indirizzare alle procure o alla polizia giudiziaria, magari – come piacerebbe ad alcuni – pure evitando di scrivere la notizia.
Il giornalista è un professionista tenuto dalla sua deontologia professionale a dar notizia, sulla testata per cui lavora, di tutto ciò che sa.
Ogni prescrizione diversa implicherebbe almeno due deprecabili conseguenze:
– che un giornalista possa essere ammesso a non rendere conto (come invece dev’essere) al lettore, ma – invece – alla magistratura (a cui invece è evidentemente chiamato a rendere conto se e quando nel suo lavoro commette qualche reato);
– oppure che possa, addirittura, fare un uso strategico o a fini di vantaggio personale di notizie di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio del suo lavoro.

Il giornalista, tra l’altro, è tenuto a tutelare le sue fonti, e può essere chiamato a svelarne l’identità solo ed esclusivamente da un giudice, nemmeno da un pm.
Altro che denuncia da presentare in carta bollata.
L’unica carta bollata del giornalista, caro ex ministro della Giustizia, è la testata per cui lavora.