bici multate: io son sempre in regola, la mer** sei tu

Ma quanto ci appaga – quanto, mio dio – individuare devianze da sanzionare, non importa quanto piccole, quanto banali? Quanto ci piace guardare al mondo con l’occhio di chi cerca l’errore da sottolineare? Di chi vuole raddrizzare le gambe ai cani? Di chi attraversa la vita cercando di fissare la linea dell’inaccettabile un millimetro più avanti del proprio piede?

A Verona, i vigili hanno multato un ragazzo che stava parlando al cellulare mentre andava in bici; 148 euro, ma nessuna decurtazione di punti sulla patente, ovviamente, perché la bicicletta – mi correggo: il «velocipede» – non è un mezzo per condurre il quale sia necessaria una licenza.

«La scelta della polizia municipale è quella di prevenire», commenta il sindaco Tosi. «Ma quando è necessario bisogna intervenire. Non farlo vorrebbe dire omissione di atti. E – ciò che più conta – creerebbe un grave precedente autorizzando chiunque a comportarsi fuori dalle regole».

A me questa cosa delle regole ha sempre fatto un’enorme impressione.
Com’è possibile – mi domando – non avere un’idea del fatto che fra le regole esiste una gerarchia?
Com’è possibile non domandarsi mai quale sia il senso di una regola, prima di decidere se seguirla è fondamentale o no?
Com’è possibile che l’esistenza della regola assolva fondamentalmente il compito di far sentire «a posto» – «in regola», appunto – chi la segue, e «deviante» chi non la segue, indipendentemente dall’effettiva utilità di quella norma per la convivenza civile? Com’è possibile che la regola serva da scrematura invece che da semaforo civile?
Io dentro e tu fuori?

Questa cosa mi fa pensare che la Lega sia un fenomeno solo apparentemente ribellista: diversamente, non riuscirei a spiegarmi l’accanimento feroce e selvaggio con il quale si manifesta attaccata al principio di restaurazione di qualunque cosa.
Sembra sempre che siano sul punto di fare la rivoluzione perché è sbagliato questo, ed è sbagliato quello, ed è sbagliato anche quell’altro.
E poi, invece, te li ritrovi a difendere l’integralismo cattolico, il principio intrinsecamente fascista del law and order, la retorica della disciplina e del decoro, a pensare che l’unica comunità di affetti che meriti il nome di famiglia sia quella in cui un uomo e una donna hanno detto al loro dio – al dio dei leghisti, intendo – che si ameranno per sempre, e che la donna è sottoposta all’uomo.
A cavalcare un senso tribale di giustizia che alla fine è traducibile solo in qualcosa di questo genere: «Non è giusto che fino a ieri abbia comandato tu. Adesso il potere è mio e dunque comando io e tu te ne vai affan****».

E poi Veltroni mi viene a dire che a cambiare tutto, a minare il cosiddetto «dialogo» (ma per fare cosa? A quale scopo?) è stata la lettera di Berlusconi a Schifani sulla norma salva-Silvio.
Copio dall’intervista di Arturo Parisi, ex ministro della Difesa del governo Prodi e ulivista della prima ora, al Corriere: con Veltroni «mi sembrava di essere nella gag di Totò, quella in cui un signore schiaffeggia Totò chiamandolo Pasquale, e più lo schiaffeggia e più Totò ride. Tanto che quello gli chiede: “Ma come? Più io ti meno più tu ridi?”. E Totò gli risponde: “E che? So’ Pasquale io? Volevo vedere dove andavi a finire”».