io non ho lo yacht

La foto che illustra l’articolo che fino a poco fa apriva la homepage di Dagospia mi ha colpito moltissimo (per non dire dell’articolo, ma non importa).
La descrivo, ma nulla – a parte l’eventualità di uno o due conati di vomito, però son cose a cui si sopravvive – vieta di andarla a vedere qui.

Un omino di altezza inferiore alla media e d’età che dovrei definire matura.
Un doppiopetto apparentemente blu, ma si sa che i giochi di luce fanno brutti scherzi; potrebbe essere anche grigiolino-bluette.
Una cravatta sul blu con disegni piccoli piccoli.
Una smorfia di vago disgusto sul volto coloratino e segnato da qualche macchia di vecchiaia.
Capelli radi ma di colore molto intenso, come se fossero stati passati uno per uno con una spugnetta imbevuta di cromatina da scarpe marrò.
La criniera di un corazziere appena visibile nell’angolo a destra, fotograficamente sovraesposta.
E nel quarto inferiore dell’immagine una mano.
La sinistra dell’omino in questione.

Che si àncora a una propaggine del proprio piccolo corpo come se, in uno spasmo inconsulto, volesse sincerarsi che nottetempo non ne fosse stato inavvertitamente abbandonato; e si aggrappa a quel frammento di sé come a una delle poche certezze di cui un uomo, per quanto attempato e oggettivamente privo di attrattive diverse dal suo potere, possa ancora disporre in questi tempi difficili.

Ecco. Io non me la sento di ridicolizzare la faccenda. Di dire «ah che mancanza di stile», o «che uomo plebeo» e di chiuderla lì, come se nella mia spiaggia privata la risacca non potesse portare quel tipo di inquinamento, come se i miei soldi mi consentissero di veleggiare in un mare calmo e pulito, inattaccata dalle miserie e dalle pochezze con cui si devono confrontare i poveracci; come se io fossi tanto fi**, troppo per potermi occupare di questo piccolo signore che prima o poi abbandonerà il timone di questo Paese lasciando a me il mio castello, o il mio yacht, o la mia villa, o la mia tenuta, o il mio albergo, le mie industrie piccole medie o grandi.

Io non ho le difese del rango, del censo, dell’«insiderness», del potere mio o della mia famiglia (con la minuscola o la maiuscola, non importa) da opporre a tutto questo.
Francamente nemmeno le vorrei.
Credo che sia per questo che quella foto a me non sembra un’amenità per la quale posso ridere, ma un’immagine che spiega da sola e perfettamente il senso di quello che sta succedendo al mio Paese, schiavo della trivialità e dello squadrismo, nostalgico del feudalesimo, disponibile all’inchino servile, fieramente maschilista e persuaso che le donne siano merce che va esibita affinché se ne possa saggiare preventivamente la qualità, incapace di guardare a se stesso come a una realtà che possiede più di due dimensioni: quella dei «buoni», noi, e dei «cattivi», tutti gli altri.

È sconvolgente, per esempio, che così tante ragazze colleghino la percezione del proprio valore al giudizio che della loro appetibilità sessuale viene dato da maschi indistinti e indifferenziati; predatori generici, insomma.

In quella foto c’è tutta questa roba. E quel piccolo uomo che si gratta rende farsesco anche il corazziere che nella foto si intravvede. Rende ridicola perfino una Repubblica morente.