se i giornalisti alzassero la testa…

Con oscena tempestività, a due giorni dal momento in cui il ministro del Welfare Maurizio Sacconi aveva detto che «sanzioni sproporzionate distolgono l’attenzione delle imprese dallo sforzo di aumentare la sicurezza, spingendole ad adempiere a comportamenti formalistici per evitare le sanzioni», a Mineo, nel Catanese, sei lavoratori sono morti – aspettando il momento decisivo tenendosi abbracciati – mentre facevano manutenzione alle vasche del depuratore comunale.

«Lasciateci in pace, non è uno spettacolo», hanno detto i familiari ai giornalisti che affollano l’area in cui è avvenuta la tragedia.
Hanno certamente ragione loro, è evidente: non è, non può essere, uno spettacolo.
Però io non posso dimenticare che la responsabilità specifica di un giornalista è raccontare i fatti andando di persona nei luoghi in cui essi si sono verificati, ascoltando le cose che hanno da dire le persone che erano presenti ai fatti o ne hanno sentito parlare, o sanno cose utili alla ricostruzione dei fatti.

Capisco che possa non piacere; ma capisco anche che è il gioco delle parti.
I giornalisti sono pagati anche per sopportare le parolacce delle persone che non vogliono diventare fonti, che non vogliono raccontare le cose, che resistono legittimamente a vedere i loro casi – ameni o dolorosi – appiattiti nella bidimensionalità della cronaca. Sono pagati anche per sopportare che qualcuno li mandi affan****.
D’altra parte, il pediatra che fa un’iniezione è certamente poco simpatico al bambino le cui terga vengono perforate dall’ago, ma svolge comunque un ruolo che ha una sua indiscutibile utilità.

Questo, però, non mi impedisce di rilevare una circostanza che a me fa male: e cioè che se qualcuno ci vede come professionisti dello spettacolo invece che come professionisti dell’informazione (o anche come alleati; è questo, no?, che dovrebbe essere un giornalista: un cittadino «alleato» dei cittadini), beh, la colpa è stata anche nostra; della serenità con la quale abbiamo accettato che il senso della nostra professione venisse massacrato da organizzazioni del lavoro dissennate e servili, dalla vile acquiescenza al mainstream, dall’incontrastata tranquillità con cui abbiamo consentito praticamente a chiunque, ormai, di insegnare a noi cos’è e cosa non è il nostro lavoro, anche senza averlo mai fatto: dal benzinaio sotto casa al politico che chiama l’Ansa per dire due cose in croce.

Non sono cose belle.
No.
Ma dirlo è piuttosto impopolare.