sradicarsi o perire: un paese in putrefazione

Quella di stamattina era, per me, l’ultima lezione d’inglese del corso. Andandomene, ho chiesto a Oliver – l’insegnante – quando sarebbe rientrato in Inghilterra, a casa, per le vacanze.
In luglio, mi ha detto. «E in autunno tornerai in Italia?», gli ho chiesto.
«No», mi ha risposto. «Penso che me ne andrò nell’America del Sud».

Oliver ha 24 anni, mi pare, ed è cresciuto a Bournemouth, nel Dorset, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. La madre è originaria del Sudafrica. Nel suo Paese ha studiato lo spagnolo, e per qualche tempo ha vissuto in Spagna. Per un anno – questo – è stato in Italia. «L’Europa», ha detto una volta davanti alla macchinetta del caffè, «mi sembra di avere imparato a conoscerla e a capirla abbastanza bene; la gente, pur nelle sue differenze, è piuttosto simile e ha stili di vita che si somigliano. Adesso ho voglia di andare a vedere come si vive da qualche altra parte».

Capisco che Oliver possa non essere il tipo standard di ventiquattrenne inglese.
Ma mi ha impressionato molto che un ragazzo di quell’età abbia il desiderio di uscire dal suo confine, di andarsene, di volare, invece che quello di prendersi a rate il macchinone da posteggiare in divieto di sosta per andare a ingollare l’aperitivo in piazza insieme ad altri cento tronfi vitelloni dalle aspettative triviali; che possa voler investire su di sé invece che sui soldi di papà; che si veda come un essere umano in movimento piuttosto che come un bipede da allevamento destinato a una vita stanziale in cui accumulare il denaro utile a umiliare chiunque. Che abbia il piacere di sentirsi sciolto dalle sue radici invece di andare cercando improbabili codici identitari per affermare i quali è disposto a picchiare e magari perfino ad uccidere.
È da tempo che ci rifletto, ma per me una delle forze più feconde della vita è lo sradicamento.
(E i giornali – soprattutto quelli locali – dovrebbero forse uscire dal tunnel della signora Mina che è caduta dalle scale nella frazione di Pinzillacchero e se l’è cavata con dieci giorni di prognosi. Ma una cosa del genere non può certo accadere di questi tempi).

Mentre stamattina Oliver mi diceva che se ne sarebbe andato in Sudamerica, pensavo all’enorme privilegio che hanno i ragazzi che – discendenti da un impero recente ed esteso dal Canada all’Oceania, portatori di una lingua egemone, e allevati nell’orgogliosa retorica del viaggiatore inglese seicentesco – riescono a vedere se stessi come cittadini di un mondo smisurato e alla portata delle loro possibilità.
È un grande privilegio, e non c’è nessun altro modo per dirlo, poter concedere a se stessi la chance di essere curiosi, interessati all’esplorazione dei luoghi e delle persone.

Oggi alla lezione c’ero solo io; chissà perché, il resto della classe aveva disertato. Oliver mi chiedeva cosa stia succedendo in Italia a proposito di rom, razzismo e derive fasciste, perché leggendo i quotidiani britannici aveva appreso con sorpresa dell’esistenza di questi deragliamenti politici.

Io gli ho parlato delle mie ipotesi, e lui interloquiva con un singolare impasto di curiosità e distacco, cosa che immagino sia un tratto molto inglese, spiegandomi di conoscere poco della storia d’Italia.
Mi sono ritrovata a parlargli di Tangentopoli e dello stigma di disprezzo che gli eventi di quegli anni hanno impresso indelebilmente (grazie all’applicazione di qualcuno, credo) nella percezione comune dei miei connazionali su politica e politici.
Lui ha chiesto: «Are you talking about politics or politicians?».
Stavo parlando di tutte e due le cose, ma a Oliver viene difficile credere che nella percezione della gente non ci sia nessuna differenza tra politici e politica; tra un’espressione imprescindibile e necessaria della democrazia e l’incarnazione contingente del tramite fra cittadino e istituzioni.
E anche da questo si vede che non è italiano.
In effetti, il qualunquismo italiano è diverso dal qualunquismo di qualunque altro posto del mondo, forse.

Il mese precedente alla sconfitta dei terribili gemelli Kaczynski – e cioè in settembre 2007 – una simpaticissima e deliziosa dottoranda polacca che studia al Trinity college di Dublino, estasiata dal calice di vino rosso che il TcD aveva disseppellito per quel ricevimento, mi raccontava che lei non ha mai conosciuto nessuno al mondo che parli di politica in modo così ossessivo e lamentoso come gli italiani e i polacchi.

Ci dev’essere un perché, immagino.
Ma in realtà non mi interessa neanche saperlo.
Mi accontenterei di riuscire a venire a patti con il mio desiderio di fuga da qui.
Capisco che l’immagine è un po’ forte e che magari risente del fatto che sta piovendo da settimane: ma a me sembra che questo Paese sia in putrefazione.
E pensare che mio figlio possa doverci restare mi inquieta moltissimo.
Ecco.
L’ho detto.