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Ieri sera, al lavoro, la tv era sintonizzata su RaiUno. In sottofondo, c’erano le parole pronunciate nella trasmissione che Vespa ha dedicato alla semilibertà concessa a Pietro Maso.
Ascoltavo con un orecchio solo, e dunque può essere che mi sia persa qualcosa d’importante, però a me ha fatto impressione la leggerezza con cui tante persone ritenevano che avesse un senso intervenire – e davanti a una platea così vasta – per dire cosa pensavano della vita di un’altra persona.

Io capisco – lo capisco bene – che quando una persona «diventa» notizia deve cedere la sua privacy al mondo, che le piaccia o no, e pregare solamente di trovare giornalisti capaci di trattare la materia della sua vita col rispetto che quest’operazione esige. Lo capisco, e anche se mi sembra ingiusto so che devo comunque accettarlo come parte delle regole del gioco.

Però, con tutto questo, mi domando lo stesso come si possa credere di essere in qualunque modo legittimati – che si sia preti, sindaci, giornalisti, criminologi, magistrati – a mettere entrambi i piedi nel piatto doloroso della vita di una singola altra persona pretendendo di dire (in tv, e non nell’esercizio del proprio specifico mandato professionale) se è giusto o sbagliato, in termini generali, che quella persona sia ammessa a un beneficio previsto dalla legge.

Non è questione – credo – di essere oppure no garantisti. È questione di saper stare in silenzio quando ciò che si ha da dire non ha nessun autentico valore pubblico, non costruisce senso. O di saper ammettere onestamente che si sta usando la vita di una persona per parlare d’altro; per parlare di sé.

Io penso che ciascuno di coloro che credono di aver qualcosa da dire sul reale pentimento di un uomo, sull’efferatezza dei suoi delitti, sul suo diritto di vivere nel mondo, stia invece fornendoci la propria visione di altro: sta dandoci la sua visione di ciò che lui crede debbano essere la pena, il mondo, la vita, la società, il patto civile.

Sono le chiacchiere da bar ascoltando le quali, davanti a un caffè, capisci quale sia l’orientamento politico di chi sta parlando con te.
Solo che alcuni vanno a farle in tivù.
E non per parlare di Maso, ma per parlare di sé, per fare pubblicità a se stessi, per consacrare se stessi come autorità che hanno il diritto – se non il dovere – di parlare di tutto; perché loro sanno, loro sono «sul mercato delle opinioni».

C’è una legge che consente a Maso di ottenere la semilibertà. Ci sono magistrati pagati apposta per valutare.
Se non ci piace, possiamo certamente parlarne. Ma bisognerebbe avere il coraggio di dire che si sta parlando di questo, e non della vita di uno specifico uomo, che nessuno può veramente conoscere.

Altra cosa, naturalmente, è avere un giudizio su chiunque; e anche su chi, come Pietro Maso, sia stato protagonista diretto di casi di cronaca così difficilmente ignorabili.
Ognuno di noi ha il diritto di avere un giudizio, penso; ma deve sapere che è un giudizio privato, personale, che risente del modo in cui la sua esperienza di vita si mescola con ciò su cui esercita il suo giudizio.

A me non piace il modo in cui i giudizi privati diventano pubblici, diventano politica, diventano materia collettiva.
Mi sembra una cosa con conseguenze molto sbagliate.