il «gesto folle» e la mancanza di rispetto

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Sulla decisione di quella donna che ha ucciso la figlia di cinque mesi che aveva la sindrome di Down, leggo questo sulla Repubblica:

La donna – maestra d’asilo, amante dei bambini, madre anche di un bambino di 5 anni – non era riuscita a superare il trauma della nascita di una bimba disabile e ieri sembra aver ceduto alla propria disperazione. (… ed) è nel dolore di questa donna che non riusciva ad accettare la nascita della figlia che bisogna indagare.

«Superare il trauma».
«Accettare la nascita della figlia».
Che parole violente, stupide, liquidatorie, semplicistiche e irrispettose.

Chi può pensare che sia possibile accettare la nascita di un figlio Down? O superare il trauma?
Chi può credere che basti un’azione intenzionale (accettare la nascita, superare il trauma) ultimata la quale la disperazione – puff – è scomparsa e non c’è più?

Chi può escludere che questa donna avesse compreso quanto difficile sarebbe stato il futuro della sua bambina, suo, dell’altro figlio e del marito?
Non dico che sia andata così, ma perché – mi domando – invece di pensare che l’omicidio e il suicidio siano nati da una profonda consapevolezza della presumibile tragedia futura, viene così semplice e autoassolutorio pensare che questa donna abbia ucciso e si sia uccisa perché non aveva il fisico per sopportare il passato e il presente?

Quanto facile moralismo autoassolutorio.
Era lei che doveva accettare la nascita di una figlia Down.
Era un problema suo.
Io giornalista, io osservatore, io vicino di casa, io pezzo di società, io conoscente, io non c’entro: non ho nessun dovere di rendere un po’ più facile la vita a questa donna e alle altre donne così intaccate negli affetti più profondi.
Non ho nessun dovere di rendere più facile la vita delle persone handicappate, ostaggi perpetui di uno sciagurato sistema di cosiddetti servizi sociali che piallano come rulli compressori i cuori di chiunque passi per i loro nauseanti e riprovevoli artigli.

Era lei che era depressa.
Non io vicino, io giornalista, io conoscente, io vicino di casa, io pezzo di società, a non aver fatto un ca***.
È questo il motivo per cui possono parlare – vergognosamente – di «gesto folle».