celli e la lettera al figlio sull’espatrio

il_paese_dei_cachi_lo_so_son_aranceCon una di quelle operazioni che francamente fatico a giudicare limpide, Repubblica pubblica oggi una lettera che Pierluigi Celli, ex direttore generale Rai e ora direttore generale della Luiss, scrive al figlio laureando.

Dal contesto della lettera escludo che la pubblicazione sul quotidiano fosse l’unico modo che questo padre aveva per dire al figlio ciò che gli stava a cuore, e cioè, in estrema sintesi, «figlio mio, lascia l’Italia, che è un Paese di merda».

«Merda» non lo dice, ma il succo è questo.
Qui, gli dice, c’è una «Società» (non ho capito la maiuscola) «divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza».

E uno dice: mmh, però, il compagno Celli.

Ma mi domando: se questa disperazione vale per il figlio di Celli, cosa dovrebbe valere per il mio, allora?
Cioè, in soldoni: come ti permetti di scrivere una lettera disperatissima a un giornale quando poi tu, per il solo fatto di avere una rete di relazioni che la tua carriera mi autorizza a supporre estese e consolidate, potresti aiutare tuo figlio a cercar lavoro ovunque, qui e all’estero, e potendolo mantenere ovunque senza sacrificio?

Io se fossi tuo figlio mi arrabbierei: papà usa un giornale per dirmi della cose che dovrebbe dirmi di persona.
Oppure, variante: papà ripete sul giornale le cose che mi dice ogni giorno a casa mentre mi lavo i denti.

Insomma: che operazione è mai questa di Repubblica?
D’altra parte, sulla homepage Saviano un giorno sì e l’altro pure tiene discorsi alla nazione sui quali poi viene aperto il televoto come se il giovane retore fosse il presentatore di Canzonissima e noi da casa fossimo tutti «piccoli fans» come la vecchia trasmissiome di Sandra Milo.

Ma tant’è: non siamo più cittadini che hanno sedi proprie per dir quel che politicamente pensano e vorrebbero. Abbiamo bisogno degli spazi-marketing comprati dal (o venduti al; o appaltati al) brand Saviano sulle pagine di un’agenzia cartacea e online di manipolazione del consenso.

Ma poi leggi una frase.
Una frase di Celli, intendo.
E capisci tutto.
Capisci che la sinistra che intendono farti digerire – dalle pagine di Repubblica, ma mica solo – è una forma attenuata di destra, come in un vaccino.

La frase è questa: (il nostro) «è anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l’Alitalia non si metta in testa di fare l’azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell’orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà.
E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l’unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio».

Per quel che ho da dire, la prima frase rileva solo per fare contesto.
La seconda significa due cose.
La prima è che Celli s’è dimenticato della gente che i patrioti della Cai hanno lasciato a casa.
La seconda è che la sua idea – e se questa è la sinistra, ridatemi Andreotti, per favore – è che se un dipendente non percepisce a rischio il proprio posto di lavoro non lavorerà mai nel modo in cui dovrebbe.

Vorrei tanto consolarlo, povero Celli; dirgli che no, io ho sempre lavorato anche se pensavo che i miei giornali non fossero a rischio di chiusura.
E vorrei anche dirgli che ho lavorato tanto anche nei giornali che a rischio di chiusura sembravano essere.
Come quello di proprietà di suo fratello, per esempio.

Dove non c’era collegamento all’Ansa, i redattori assunti erano quattro per fare un intero giornale locale, il giorno di riposo non esisteva («sapete com’è, abbiamo appena aperto»), si lavorava per oltre dodici ore al giorno, e il sindacato non c’era; il tentativo di elezione di un cdr – si narra, ma io non c’ero già più – è stato scoraggiato con sistemi di dissuasione informali ed efficaci.

Il mio contratto era a tempo indeterminato, ma mi sono dimessa, preferendo un contratto a tempo determinato – tre mesi – altrove.
Se questo è il destino a cui il figlio di Celli – parlo di Pier Luigi – è atteso, gli consiglio di fare come consiglia papà: prendere e andare all’estero.
Su, forza.