handicap, emozioni e minimi eroi di comodo

io_e_francescoMio fratello è entrato nella scuola pubblica immediatamente dopo l’approvazione della legge 517 del 1977.

La legge – recependo il lavoro che portò al documento del ’75 della commissione presieduta dalla famosa (famigerata?) Franca Falcucci – prevedeva l’inserimento dei bambini handicappati nella stessa scuola dell’obbligo a cui avevano accesso tutti gli altri.

la meta

Ricordo le riunioni, i viaggi, le telefonate, le discussioni di mia madre nell’associazione di cui faceva parte. I congressi straordinari convocati per discutere la legge.
Che momento, nella mia vita personale.
Quando penso a tutto questo, mi rendo conto di quanta tenerezza posso provare per me stessa e per la mia storia.
Sembrava che i miei e io avessimo una meta – l’ottenimento della legge e, di conseguenza, una nuova speranza di presenza di mio fratello nella vita – e che raggiungere le mete fosse una cosa possibile.

classi differenziali

Queste cose mi venivano in mente leggendo il pezzo che Repubblica dedica oggi ai tagli agli insegnanti di sostegno, suggerendo che l’obiettivo della politica governativa possa essere la ricreazione delle classi differenziali (cosa che peraltro scrivevo qui il 15 ottobre dell’anno scorso).

la mia valvola

Io possiedo senza fierezza una speciale valvola cerebrale che mi impedisce di accedere alla prima dimensione di qualunque battaglia civile, mi obbliga inconsapevolmente a cercare una seconda dimensione, e poi una terza; e mi costringe a percorrere linee di faglia mie.

scolari di serie b

Credo che questo dipenda da ciò che ho visto in quel periodo: cioè la determinazione di mia madre e di pochi altri alleati (un gruppo che, formato da persone di tutt’Italia, ricordo coeso, motivato e autenticamente felice nella lotta, guarda un po’…) nel sostenere che ciò di cui la scuola dovesse dotarsi non fossero gli insegnanti di sostegno, che avrebbero – e hanno – diviso gli scolari in bambini di serie A e bambini di serie B.

niente insegnanti di sostegno

L’idea di questa frangia per così dire radicale di genitori era che ogni classe avesse bisogno di più insegnanti, di modo che non ce ne fosse nessuna specificamente dedicata allo scolaro handicappato. Certo, per alcuni bambini occorreva anche la presenza di inservienti che potessero cambiar loro il pannolino.

E a chi eccepiva che la scuola e gli insegnanti «non sono preparati per accogliere gli handicappati» (madonna quante volte l’ho sentita questa frase), si rispondeva in prima battuta che non era detto, e in seconda battuta – quella negoziale – che ciò che in fondo bastava era che a «formarsi» per la relazione didattica con queste bestie rare che si presumevano indifferenziatamente ciascuna manchevole degli stessi chips fossero tutti gli insegnanti e non solo quelli – appunto – di serie B.

le para-maestre

Ciò che apparentemente si poteva credere un’azione per – chiamiamola così, ma lo considero improprio – l’«integrazione» conteneva invece in questo modo le premesse per la sua negazione: dapprima spillata a piccole dosi grazie alla presenza degli insegnanti di sostegno, sorta di figure ibride e sostanzialmente subordinate alle maestre vere, quelle con l’iniziale maiuscola; e poi più decisamente negata con la deriva di ritorno alle classi differenziali, che immagino saranno giustificate con l’argomento biforcuto della meritocrazia (per i «normali», di cui si dirà che hanno il diritto di non essere «rallentati» negli studi) e della «personalizzazione» dell’offerta formativa (per gli «handicappati», di cui si dirà che hanno il diritto di avere figure specialistiche e preparate che si occupano di loro.

il corridoio della vita

Alle elementari, mio fratello veniva fatto uscire dalla classe, sorvegliato dall’insegnante di sostegno, ogni volta che il suo insegnante faceva cose alle quali riteneva necessaria l’assenza delle distrazioni indotte da mio fratello.
Un’altra insegnante alla quale mia madre chiese se non potesse accogliere il piccolo nella propria classe fintantoché le operazioni di calcolo differenziale dei compagni di mio fratello non fossero finite le disse che lei non poteva «mettere una bruttura simile di fronte agli occhi di un’intera classe di bambini di sei anni».
Ci fu un processo (un giorno lo racconto).
Ne parlarono i giornali nazionali, all’epoca.
Ma non accadde niente.
Mio fratello hanno continuato a portarlo in corridoio.
E ora è ancora seduto nel corridoio della vita: in un istituto come qualunque altro handicappato di ogni tempo della storia moderna, perché non siamo più fisicamente in grado di occuparci di lui.

mi manca il «senso»

Nella battaglia dei genitori per riavere gli insegnanti di sostegno – che è ciò di cui parla l’articolo – io non riesco a vedere fino in fondo il senso.
Lo so: sembro crudele, cinica, irrispettosa dei sentimenti altrui.
In realtà io vengo da laggiù, io. Sono stata una bambina che pensava che uno dei suoi doveri fosse partecipare da sorella-cittadina alla creazione delle condizioni più favorevoli per la vita di suo fratello.

la disfatta

Battagliare, però, non ha avuto senso. Non un senso esterno alla battaglia in se stessa.
Non è poco, non lo nego.
La battaglia dà energie per vivere, e questo lo capisco bene.
Però niente ha consentito a mia madre – mio padre è morto prima di essere messo di fronte a questa disfatta – di tenere con sé suo figlio con l’aiuto di qualcuno.
Niente le ha impedito di farsi spezzare il cuore dall’enormità di questo fallimento; dalla necessità straziante dell’abbandono di un figlio.

pinocchio non torna di carne

Di cosa stanno parlando – vorrei sapere – i genitori che vogliono gli insegnanti di sostegno?
Stanno cercando di dire a se stessi che il loro bambino è un pinocchio che si sta aggiustando?
Cercano di convincersi che il futuro di quel pinocchio sarà un bel futuro?

zuccherini giornalistici acquieta-coscienze

Non lo sarà.
E sarà orrendo per loro rendersi conto giorno dopo giorno con crescente dolore della propria impotenza di madri, padri, fratelli o sorelle.
D’altra parte, basta farsi attraversare dal tono del pezzo che c’è su Repubblica: la solita inconsapevole aspettativa di eroismo da ricavare dalle storie minime, lo zuccherino che l’establishment dà alle cavalline ingrigite dall’età come quella di Pascoli.

il silenzio

Prendiamo l’incipit di un paragrafo: «Storie di vita quotidiana, vissute in silenzio».
Sì.
Cosa vuol dire?
Quali sono le vite quotidiane che si affrontano rumorosamente?
E cosa c’è di male nel vivere rumorosamente, magari adoperando una voce un po’ più alta per parlare di ciò che si crede essere un proprio diritto?
Che contrassegno descrittivo introduce, il «silenzio»?

una soluzione semplice…

«Da quando il Comune ci ha affidato una lettrice», dice una madre, «quando c’è lei mio figlio cambia, sorride, non è più triste».
Credo che non fosse questa l’intenzione della donna che parla, e nemmeno un suo retropensiero.
Però proviamo a immaginare qual è il retropensiero che scatta nella mente di chi legge (e di chi scrive, forse, un pezzo come questo): gli handicappati sono persone speciali che hanno bisogno di essere messe in condizione di sorridere grazie alla presenza delle persone giuste.

… che ci manda tutti assolti

Verosimile, no, come pensiero?
Beh.
Non è quello che capita a tutti?
Ma quel che fa di più un pezzo come questo è la seguente cosa: fa ritenere che una volta individuata la persona che toglie all’handicappato la tristezza e gli fa tornare il sorriso, beh, ogni problema è risolto e la società viene mandata assolta.

il diritto alle emozioni

E infine, a margine: gli handicappati hanno anche il diritto di essere tristi.
Non capisco perché una mano pretesamente pietosa dovrebbe depurare il loro mondo dalle alterazioni emotive, garantendo il rispetto di un range prefissato di oscillazioni, come un limitatore di giri o di velocità.