la democrazia della paletta


Riporto di seguito l’intervento che ho tenuto all’incontro cagliaritano organizzato da Megachip e da Cavalieri Rossomori.

Avverto che si tratta di un testo piuttosto lungo e articolato, benché diviso in parti.

chi sono e cosa faccio

Io mi chiamo Federica Sgaggio; sono giornalista professionista e sono una «scrittricina».
Lavoro da nove anni all’Arena di Verona.
Attualmente sono vicecapo del settore interni-esteri.
Dal 1992 in avanti ho lavorato in moltissimi quotidiani, tutti locali o regionali, dal Gazzettino all’Alto Adige.
Gli orari dei giornali non consentono il pendolarismo ferroviario; perciò, per raggiungere le città in cui lavoravo – da Belluno a Forlì, per misurarne la punta massima a nord e la punta massima a sud – mi sono mossa sempre in macchina.
Recentemente ho pubblicato per la casa editrice Sironi un romanzo che si intitola Due colonne taglio basso, ed è la storia dell’omicidio del vicecaporedattore di un quotidiano locale.
So che sul punto Freud avrebbe qualche opportuno rilievo.
Benché il giornalismo sia una professione caratterizzata da un alto grado di incompatibilità con la vita – per moltissime ragioni – ho un marito e un figlio.
Mi sono sposata e ho partorito durante due diversi periodi di disoccupazione: e anche questo ha un suo perché.

perché il mio blog?

In quest’intervento cercherò di rispondere a questa domanda: perché una giornalista professionista dipendente di un’azienda editrice di quotidiani a tempo pieno e indeterminato decide di diventare blogger.
In altri termini: se – come alcuni ritengono – diventare giornalista è l’obiettivo più normale di un blogger, perché io ho scelto la strada opposta?

cosa si vede nei giornali?

C’è una domanda preliminare, però, ed è questa: cosa si vede, stando dentro i giornali?

un paese in armi

Comincio da una notizia
Questa (virgolette, spazi, maiuscole e accenti nell’originale, ndr).

AFGHANISTAN: BOMBA CONTRO ITALIANI; UN FERITO,4 CONTUSI/ANSA
A BORDO DI UN ‘LINCÈ. LA RUSSA,PER FORTUNA ORDIGNO NON POTENTE
(ANSA) – ROMA, 3 FEB – Un militare italiano con un sospetto trauma cranico e quattro solo contusi: è andata bene, grazie ancora una volta alla efficace protezione del superblindato ’Lincè, alla pattuglia di bersaglieri saltata oggi su un ordigno esplosivo nell’ovest dell’Afghanistan. L’allarme, naturalmente, resta ad altissimi livelli.
L’attacco contro la pattuglia, riferisce il tenente colonnello Marco Mele, portavoce del contingente, è avvenuto alle ore 13.20 (le 9.50 in Italia), al rientro da un incontro con i leader di alcuni villaggi – in gergo ’key leaders engagement – finalizzato a raccogliere informazioni sull’area in cui operano le forze di sicurezza locali ed i militari di Isaf.
L’esplosione si è verificata a circa quattro chilometri dalla Fob (Forward operating base) di Shindand, la base operativa avanzata che ospita i militari italiani della Task force center, composta dai bersaglieri del 1/o reggimento di Cosenza.
In seguito alla deflagrazione, «un militare – dicono al comando del contingente – ha riportato un sospetto trauma cranico mentre gli altri quattro a bordo del Lince solo leggere contusioni». Subito trasferiti all’ospedale da campo della base, i militari hanno potuto parlare personalmente al telefono con i familiari e tranquillizzarli.
(…)
La notizia dell’attentato è arrivata alla Camera mentre era in corso la seduta dell’Aula. Il Pd ha chiesto al Governo di riferire e, pochi minuti dopo, è intervenuto lo stesso ministro della Difesa La Russa che ha confermato le notizie «tranquillizzanti» sui militari coinvolti: «non hanno riportato ferite degne di rilievo. Vi è un sospetto trauma non commotivo (in pratica, come una normale botta in testa) per uno di loro, mentre gli altri sono già in servizio».
«L’ordigno esploso per fortuna era di modesta entità e ha solo danneggiato il mezzo in modo lieve», ha aggiunto, chiedendo a tutto il Parlamento di rivolgere «un ringraziamento ai nostri ragazzi, che sono sempre nel nostro cuore, perchè sappiano che siamo a loro vicini in ogni momento».
L’applauso è prontamente arrivato da tutta l’Aula (…).
Gli attacchi, le bombe e i razzi (…) comunque non fermano le attività di ricostruzione e umanitarie del contingente italiano.
Tra gli ultimi progetti realizzati, interventi volti a migliorare le infrastrutture del comando della polizia di Herat e un nuovo sistema di videosorveglianza per il carcere, mentre lo Stato maggiore della Difesa e la Rai hanno organizzato un workshop, in corso, sulla comunicazione sociale destinato ai media locali

(Non oso pensare, ndr).

Proprio oggi pomeriggio, inoltre, è atterrato all’aeroporto di Herat il C130 dell’Aeronautica che ha riportato a casa il piccolo Said, un bambino di due anni affetto da una grave patologia cardiaca non curabile negli ospedali locali e ricoverato in Italia, al ’San Carlò di Potenza. L’intervento chirurgico è andato bene e Said potrà presto tornare a una vita normale.

retorica, guerra e sud

Qualcuno, prima, diceva «attenti alla retorica di guerra».
Questo mi sembra un buon esempio.
Volevo marginalmente far notare che nessuno di noi ha mai saputo, credo, che l’ospedale San Carlo di Potenza fosse uno degli esempi di punta della nostra «sanità di eccellenza». Nessuno mai parla di «sanità d’eccellenza» al sud.
Le cose son due: o il San Carlo è un grande ospedale e nessuno ce l’ha mai detto; o per un bambino afghano va bene anche un ospedalino così così, collocato al sud.

haiti

Ed ecco un’altra notizia:

ANSA, ANSA, Updated: Sun, 24 Jan 2010 00:40:00 GMT
Haiti dei miracoli, e’ nata Azzurra
Stop alle ricerche di superstiti,
ma ritrovati due sopravvissuti

Accanto al suo nome haitiano, ne avra’ anche uno italiano: Azzurra. La bambina e’ nata pochi minuti fa nell’ospedale da campo della Protezione civile italiana, a Port au Prince. La mamma e’ una giovane terremotata di 26 anni, che pero’ non e’ rimasta ferita nel crollo della sua abitazione. Il sisma pero’ l’ha scioccata e, soprattutto, all’improvviso la bimba aveva smesso di muoversi. Per questo ha chiesto aiuto ai medici dell’ospedale da campo italiano.
Oggi il parto, che e’ stato portato a termine senza problemi. Azzurra e’ nata proprio mentre Guido Bertolaso, il capo del Dipartimento della Protezione civile, da ieri ad Haiti per una serie di incontri, e’ arrivato nell’ospedale da campo dove ha in programma una riunione con le Ong. E’ stato uno dei primi a rallegrarsi con la giovane mamma.

miracoli italiani

Vorrei far notare alcune piccole cose, per focalizzarne alcuni contenuti:
miracoli, come se nascere non facesse parte dell’ordinarietà;

forza azzurra

– Azzurra, con tacito riferimento non solo alla maglia dei nostri calciatori, ma anche alla denominazione colloquiale assunta dagli aderenti di quel partito dal nome incredibile, Forza Italia, all’inizio dell’avventura berlusconiana;

italiani maiuscoli

– esaltazione dell’italianità come tono generale del pezzo;

una giovane proprio giovane

– giovane ventiseienne come se esistessero ventiseienni anziane;

i nomi e le cose

– la casa che è sempre abitazione;

che viriloni questi medici italiani

– lei che ha chiesto aiuto ai medici italiani, come se fosse lecito immaginare una scena nella quale questa giovane ventiseienne scioccata vaga tra le macerie alla ricerca di quale mai possa essere, fra i tanti a portata di mano, l’ospedale da campo più idoneo alle sue necessità e, una volta visto il tricolore, decide che sì, perbacco, la professionalità, la gagliardìa e l’umanità dei medici italiani sono quel che le ci vuole;

il capo porta bene

– la contemporaneità fra l’ingresso di Bertolaso e il parto, quasi che la sola presenza del responsabile – sempre, tuttavia, chiamato «capo» – della protezione civile italiana potesse garantire l’inizio delle doglie e propiziare la venuta al mondo di una nuova vita;

tra i primi

– Bertolaso-sempre-capo che «è stato uno dei primi a rallegrarsi»: singolare scelta del verbo, peraltro, di gusto retrò, e – implicitamente – l’idea che essere tra i primi a rallegrarsi con una donna (no: con una giovane ventiseienne) che ha partorito sia un titolo di merito che è rilevante sottolineare perché getta luce positiva su colui che si rallegra.

propaganda in 148 parole

In poche righe, e complessivamente in 148 parole, ne esce un quadro che comunque la si possa pensare è difficile non definire propagandistico, ideologico e giornalisticamente insignificante, nel senso che non aumenta la conoscenza dei fatti del lettore se non in modo assolutamente marginale, e certamente non in forza del suo tono agiografico.

falde acquifere inquinate

Questo è solo un esempio minimo di come ciò che i giuristi definirebbero il «combinato disposto» della protervia (delle agenzie e dei giornalisti interni ed esterni alle agenzie) e dell’ignavia/insipienza (delle agenzie e dei giornalisti interni ed esterni alle agenzie) inquini le falde acquifere dell’informazione e renda sempre più difficile la produzione di materiale giornalisticamente sensato, nel senso di «adatto ad informare, a raccontare, a dire».

il punto d’osservazione

Il problema – varrà la pena accennarlo, benché di sfuggita – non è l’obiettività, ma la leggibilità a occhio nudo del punto di vista.
Quel che è irrinunciabile, quando si tratta di giornalismo, non è la pretesa di essere obiettivi, ma rendere chiaro qual è il punto di vista di chi scrive.
Non parlo di punto di vista necessariamente politico, è chiaro.
Parlo proprio del punto di osservazione che si sceglie.

sobrio

Per fare un esempio, da un punto di osservazione non agiografico, il lancio di agenzia poteva essere tradotto in parole infinitamente più sobrie; per esempio, così:

«Il responsabile della protezione civile italiana Guido Bertolaso, in missione di due giorni» (anche la durata ha un suo perché, ma in quel lancio non c’è scritta) «è andato all’ospedale da campo italiano a Port au Prince, dove in quel momento una ragazza la cui casa era crollata stava partorendo una bambina a cui» (ma sarà vero?) «è stato dato anche il nome di Azzurra».

48 parole e una notizia in più

Quarantotto parole.
E abbiamo anche dato un’informazione in più: cioè che la visita di Bertolaso ad Haiti durava due giorni.

un altro esempio

Ed ecco qui un’altra notizia.

re silvio

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il 23 gennaio, all’assemblea di quell’altro partito dal nome strano, dice che nel Pdl sta aumentando la democrazia interna, ma lui ha l’impressione che «resti la monarchia».
La notizia ripresa da Repubblica.it (sito a cui rimanda il link qui sopra) era debitamente comparsa sulle agenzie.

i titoli

La collega del mio settore, ritenendola una notizia, aveva titolato il pezzo relativo all’assemblea del Pdl riportando il virgolettato di Tremonti sul partito «monarchico».
Nel fare il titolo di apertura della prima pagina, in un frammento dell’occhiello – cioè del righino che sta sopra il titolo – io avevo ripreso la frase di Tremonti, che in effetti era assolutamente una notizia di politica. Non era forse la notizia principale della giornata, e nemmeno della giornata politica, ma era notizia.

addio!

Ebbene.
La frase di Tremonti è stata espunta non solo dal titolo di prima pagina, ma perfino dal titolo della pagina interna, quello che aveva scritto la collega.
Il mio giornale – legittimamente, questo voglio dirlo; a me non piace ma è un problema mio, ed è una cosa del tutto legittima che un direttore e un editore decidano cose che piacciono a loro e non a me – non intendeva tollerare che la frase di Tremonti venisse evidenziata.

blogger?

A cosa mi serve raccontare queste cose?
A rendere un esempio di ciò che si vede dall’interno dei giornali; cosa che contribuisce a spiegare la ragione per cui una giornalista «strutturata» può decidere di diventare (anche, e non solo: perché al giornale continuo a lavorare) blogger.

«dire la mia»

Il mio blog si chiama come il libro, cioè Due colonne taglio basso.
Una notizia collocata su due colonne taglio basso è una notizia minima, quasi una spigolatura. Ma è anche una notizia che si intende nascondere o mimetizzare.
Come la frase di Tremonti, per esempio.
Sul blog, scrivo perlopiù (ma non esclusivamente) di giornalismo, tentando di ragionarci sopra e – ecco il nodo – di dire la mia.

è il momento

Ma è proprio necessario – può benissimo obiettare qualcuno – dire la propria?
No.
Però, nella vita di un giornalista arriva anche quel momento, il momento di dire.

il silenzio

Fino al momento in cui il blog non è diventato uno spazio a mia disposizione, la mia scelta giornalistica (quella interna al mio luogo di lavoro, intendo dire) era stata quella del silenzio: niente più pezzi fatti da me; niente più pezzi firmati; l’imperativo era tacere, scomparire, non avallare.

la teologia della liberazione

Non dare a me stessa l’identità del prete della missione latinoamericana che, con la sua adesione alla teologia della liberazione, trasforma l’immagine della chiesa in una realtà pluralista, almeno fino al momento in cui la chiesa non avrà interesse – e abbiamo visto che l’ha avuto – a farlo fuori perché della sua foglia di fico pluralistica non ha più bisogno.

destra o sinistra? no: solo propaganda

Il punto – voglio essere molto chiara – non ha assolutamente niente a che vedere con la linea politica del giornale dove si lavora; la propaganda è un modo normale di fare giornalismo, e appartiene ai giornali di ogni tendenza.
È un modo di intendere il proprio ruolo.

intellettuali, web e giornali/1

E poi c’è un’altra questione.
Questa.
Nel 2006 Giulio Mozzi scrisse per Nazione Indiana un pezzo in cui diceva che anziché gioire per la fecondità culturale dei blog occorreva invece farsi una domanda (ricordo a tutti che era il 2006, e che qui non si parla di retribuzione):

Ma perché Roberto Saviano, Marco Rovelli o Andrea Bajani non scrivono in «Repubblica», o almeno nel «Mattino di Napoli» o nel «Secolo XIX» o nella «Stampa»?
(…)
Se questi ragazzi hanno così tanto talento (e nel caso di Saviano c’è un consenso quasi universale), perché per anni e anni hanno dovuto ridursi a pubblicare i loro testi in rete, ossia – in sostanza – ad autopubblicarsi? Sarà stata scelta loro? Va bene: sarà stata scelta loro. Ma se anche è stata scelta loro, perché questa scelta? Non l’avranno compiuta, questa scelta, semplicemente perché i giornali e i settimanali sembravano (risultavano) loro inabitabili?
(…)
La grande stampa periodica (ma anche quella media e piccola) ha smesso un tot di anni fa di dare spazio agli scrittori e agli intellettuali. È stato messo un blocco:chi c’era c’era, e chi non c’era non poteva più entrare.
(…)
I Calvino e i Pasolini d’oggi devono accontentarsi dell’autopubblicazione in rete cioè di un mezzo di comunicazione che li mette, per certi aspetti (non proprio trascurabili), allo stesso livello del ragazzino che si fa il sito o del distinto signore che, vistosi rifiutare da tutti il suo orribile romanzo, lo “pubblica” (osservare le virgolette, please) in formato pdf su tutti i siti di pubblicazione automatica che gli capitano a tiro.
(…)
Se un intero sistema culturale-industriale decide di sbarcare intellettuali e scrittori, togliere loro credito, proletarizzarli, costringerli ad arrangiarsi, è tutto da dimostrare che questo sia un bene.

achtung

Attenzione, però, mi viene da dire: la proletarizzazione non tocca solo i Calvino e i Pasolini.
Ma andiamo avanti…

intellettuali, web e giornali/2

Recentissimamente, il giovane scrittore Giorgio Fontana ha ripreso il tema di Mozzi in una nota su Facebook che toccava tangenzialmente anche la polemica sul fatto che lo scrittore di sinistra Paolo Nori collabora con il quotidiano Libero:

«Scrivere su quotidiani e riviste è molto difficile», dice la nota di Fontana, «e comunque sempre più aleatorio, lasciato al caso, alla segnalazione singola, alla fortuna. Scrivere e farsi pagare, poi, è ancora più difficile.
(…)
In genere, sento queste giustificazioni:
(…)
«Sei in gamba, ma cosa pretendi?».
Molto meno di quello che in genere si pensa o si teme.
Taglio con l’accetta: lavoro intellettuale retribuito, una gestione meno gerontofila od ottusa del pensiero, e un minimo di occasioni concrete – il tutto proporzionato alla situazione di crisi eccetera, quel che volete.
(…)
Il fatto è questo: molto più che un pretendere personale (chi se ne frega di Giorgio Fontana, in fondo), si tratta di un pretendere collettivo. Il rischio è di vedersi interamente zittiti come generazione, o come fetta sociale, o come vastità di «chi non ha successo/non ha avuto culo». E il sospetto è che ciò avvenga per i soliti difetti italiani più che per problemi economici: pigrizia, clientelarismo, scarso interesse per la qualità, difesa serrata delle posizioni.

pensierini

Ecco.
A me queste riflessioni di Mozzi e Fontana, accompagnate anche dai commentari che sul web ne sono nati, hanno mosso qualcosa.

la carta

Uno:
– è molto interessante che noi tutti che frequentiamo la rete consideriamo un approdo il pubblicare sui giornali di carta.
Non i pezzi di cronaca, che possiamo lasciare volentieri a chi per mandato professionale mette le mani nel fango; ma le idee.

quarantenni, femmine, periferiche e stanche

Due:
– i giovani. Come «fetta sociale» a me sembra che siamo tremendissimamente zittiti noi quarantenni.
E noi donne quarantenni ancor di più.
E noi donne quarantenni della periferia dell’impero, parliamone ancor meno.
E noi donne quarantenni della periferia dell’impero che abbiamo dovuto spendere molto tempo e uno sproposito di energie per costruire una fonte di reddito accettabile per noi e le persone che vivono con noi, non parliamone neanche.

noi geronti

Due/bis:
– per la mia esperienza, la questione non è generazionale.
Lavoro nei quotidiani da diciott’anni.
E – da dentro – non ho mai potuto «dire».
Né da pivella né da esperta.
E nonostante un «grado».
E nonostante la determinazione.
E nonostante le cose da dire.
Se non altro per fatto personale – mi si dirà che è poco, ma purtroppo questa è una cosa che coinvolge un gran numero di miei coetanei, e non tutti incompetenti o cialtroni (ma la categoria può senza troppa semplificazione venire definita così, sì) – a me pare grave anche che la mia generazione sia stata bellamente «scavalcata» dai vecchi e, adesso, dal nuovismo giovanilista che senza grandi scrupoli ci definisce ora esempi di una gestione «gerontofila».
Fino a 39 anni, siamo stati troppo giovani per pretendere di parlare.
Dai 40, troppo vecchi.
Geronti.

controllo e consacrazione

Tre:
– credo di poter dire per la mia esperienza (in questo specifico tratto trasfusa nel romanzo che ho pubblicato) i giornali non servono a dare le notizie o a far circolare le idee che potremmo definire corrivamente «nuove», credo, ma a controllare i territori in cui vengono diffusi.
Ma da un altro e ben più ristretto punto di vista, servono anche a costruire o consacrare la visibilità di chi – dipendente o collaboratore, ma perlopiù collaboratore, direi – ci lavora.

la tv è plebea?

È uno dei motivi per i quali, mi sembra, ha senso la domanda che ponevo prima, e cioè questa: chissà perché noi che frequentiamo Internet consideriamo importante l’approdo (nostro o delle nostre idee? Perché c’è differenza) alla carta stampata, al medium mainstream.
È per una questione di autorevolezza del mezzo?
O per una questione di consacrazione di sé?
Per un bisogno di riconoscimento che situiamo a metà fra il riconoscimento plebeo che ci darebbe la tv (che non ci piace perché noi siamo così maledettamente in gamba) e il silenzio a cui ci sentiremmo condannati se restassimo solo – come me, poniamo – degli scrittorini che han pubblicato romanzini con casine editricini (più piccole, cioè di Mondadori, Einaudi e Rizzoli)?

che lavoro fanno?

Quattro (mi scuso per l’apparenza estremamente tranchant di queste domande, ma mi servono ad arrivare a un punto, e mi pare evidente che sto parlando in termini completamente generali):
– cosa ci autorizza a pensare che le «idee nuove», i commenti e le riflessioni su ciò che si muove nel mondo debbano essere portati per forza da persone esterne ai giornali?
Perché un giornale deve pagare uno scrittore per pubblicare un commento?
E perché uno scrittore dovrebbe lamentarsi per il fatto che i giornali lo ignorano come produttore di commenti?
Siamo sicuri che i cosiddetti «pensatori indipendenti» siano più competenti e meno cialtroni della categoria dei giornalisti dipendenti?
Siamo sicuri che abbiano qualcosa da dire?
E soprattutto: perché loro pensano che i loro libri non bastino?
Perché hanno bisogno di uscire sui giornali?
Perché vogliono essere pagati?
Perché i cosiddetti «pensatori indipendenti» non c’è una volta che dicano «ma veramente io su questa cosa non ho granché da dire, scusatemi», e spesso scrivano – per dirla con la Clinton – chiacchiere da bar?
Che lavoro fanno?, mi domando.
Fanno gli scrittori? Fanno i commentatori? Fanno gli intellettuali professionisti?

l’estromissione dei giornalisti

Ed eccoci al punto.
Dentro i giornali (come mostra la mia esperienza) e fuori dai giornali (come mostrano i due articoli di Giulio Mozzi e Giorgio Fontana), è sempre più chiaro che è in atto un processo storico di estromissione dei giornalisti da quello che una volta veniva definito «ceto intellettuale».
Che essi lo meritino oppure no, non sposta i termini della questione: ovvero che l’estromissione sta effettivamente avvenendo, e che essa mira a redistribuire il potere della parola scritta a svantaggio dei giornalisti.
E che il processo possa non essere ancora compiuto ugualmente non fa differenza.
E che negli anni Settanta Calvino e Pasolini scrivessero eccome sui giornali non rileva: perché i tempi storici son differenti, e il web non esisteva ancora.

per capirsi, però…

Postilla: non ho niente, né potrei permettermi di avere niente, contro gli scrittori che scrivono sui giornali, e anzi li leggo sempre molto volentieri.
Quel che voglio dire è che come io devo accettare di essere correa nel processo storico di nichilizzazione del giornalismo, evidente nelle due notizie con cui ho aperto l’intervento, indipendentemente da ciò che io individualmente effettivamente faccia, allo stesso modo gli intellettuali e gli scrittori che ritengono – giustamente – di dover scrivere, retribuiti, sui giornali stanno partecipando da correi e non da vittime al processo storico di proletarizzazione di ciò che potrei per brevità definire impropriamente «ceto giornalistico».
Questo, ovviamente, non esclude il fatto che gli stessi scrittori o intellettuali figurino non correi ma vittime in altri processi storici post-capitalistici.
In altri termini: la questione non riguarda un’ipotetica lotta fra scrittori e giornalisti, ma qual è, oggi, il senso del lavoro intellettuale.
E io, a questa domanda, non ho risposta.

perché, allora?

Adesso dovrebbe risultare più facile capire (ammesso che la domanda abbia senso) perché io – giornalista professionista strutturata e dipendente a tempo indeterminato di una testata giornalistica, io privilegiata ma appartenente a una categoria professionale alla quale un po’ tutti ormai si piccano di appartenere, in barba a quanto si divertano a definirla squalificata (e anche su questo ha senso dire due parole; lo farò fra poco, a proposito dell’esame di maturità) – ho aperto un blog.

tre motivi

Essenzialmente per tre motivi che qui riepilogo:
In primo luogo perché il silenzio a cui mi ero obbligata mi stava stretto: avevo cose da dire e avevo voglia di dirle.
Semplicemente, però, mi rendevo conto che il giornale non era il posto in cui avrei potuto dirle; per ragioni di spazio, ruolo (personale e del giornale), e linea editoriale (alludo alla propaganda per così dire «bipartisan», voglio essere chiara).

manodopera a basso costo

In secondo luogo, perché non riuscivo e non riesco a legittimare l’idea che i giornalisti – al di là delle loro colpe che giudico certamente gravi e pesanti, ritenendomene correa in ragione della comune appartenenza alla categoria – dopo essere diventati manodopera intellettuale a basso costo in forza di contratti collettivi nazionali di lavoro in cui il sindacato nazionale ha accettato il principio del salario differenziato (più basso, naturalmente) per i neo-assunti, che non recupereranno mai più il gap – debbano anche essere estromessi dal cosiddetto «ceto intellettuale» alle cui porte bussano i nuovi Pasolini, loro sì legittimati a essere i veri e autentici intellettuali.

la tenaglia

In terzo e ultimo luogo, ho aperto un blog perché – come dimostrano gli esempi con cui ho aperto questo mio intervento – noi giornalisti siamo vittime e carnefici di noi stessi, schiacciati nella tenaglia della censura che altri ci impongono e dell’autocensura a cui noi stessi, apparentemente da soli, ci adattiamo.
Su questa cosa, però, torno tra poco.
Prima voglio dire un’altra cosa.

complessità e rumore

Adesso vorrei introdurre qui un altro tema, che è un tema bicorne: quello della complessità e del rumore, che sono elementi inestricabili, e si legano alla questione della credibilità e del citizen journalism.

notizie?

A proposito di open source dell’informazione, occorre che io dica esplicitamente ciò che prima ho solo implicato: e cioè che sul blog io tendo a «dire cose», e non a non dare notizie.

Perché cercar notizie, organizzarle, connetterle, gerarchizzarle, scriverle e diffonderle è un lavoro, un lavoro intellettuale (a differenza della scrittura di un episodico commento su fatti di cronaca, per quanto importanti i fatti e per quanto importante il commento pubblicato da un giornale per quanto importante), e come lavoro intellettuale (peraltro non immaginabile come lavoro in solitaria, perché le notizie si «lavorano» in gruppo), esso va retribuito.
E nel mio blog non mi paga nessuno…

fare dell’altro

Dunque, le notizie – secondo me – vanno cercate in/per un giornale, e nell’ambito di un lavoro professionale retribuito.
Se lo posso fare per il mio giornale, bene.
Sennò, se il mio ruolo è un altro, amen: vuol dire che non lo faccio, e faccio dell’altro.
Un blog, appunto.
O dei libri, appunto: dove magari quel che ho da dire viene da più giù.

lo slittamento del piano

Perché quel che io ho da dire è spesso del tutto esterno alla logica dei giornali; è il risultato di uno slittamento del campo; è il risultato della mia indisponibilità/incapacità di accettare il piano di riflessione e ragionamento di cui danno traccia i giornali.
E il bisogno di cui il blog mi ha reso consapevole è il bisogno di gettare il mio sguardo sulle cose, spostando il punto di osservazione.

un esempio

Per fare un esempio, cito questo mio recente post.
Per confutare l’affermazione con cui il nostro presidente del Consiglio ha sostenuto che «più stranieri uguale più delinquenza», Repubblica – citando i dati dell’Istat – ha invece sostenuto che il tasso di criminalità di «indigeni» e stranieri è sostanzialmente analogo. Fra gli immigrati regolari il tasso è «fra l’1,23 e l’1,4%» (qualcuno mi sa spiegare l’oscillazione?), e fra gli italiani è lo 0,75.
?A parte il fatto che 1,4 è quasi il doppio di 0,75, la mia domanda è questa: che cosa facciamo il giorno che, per motivi che ora non possiamo prevedere, dovesse accadere che effettivamente il tasso di criminalità degli stranieri diventa di molto superiore a quello degli italiani?
Chiediamo scusa e diciamo che hanno ragione i razzisti e noi ci siamo sbagliati?
O non avrebbe senso che invece di accettare il terreno di discussione altrui noi già da ora dicessimo che secondo noi – per esempio, faccio per dire – chiunque ha il diritto di muoversi da un Paese del mondo all’altro, e che è probabilmente normale che un individuo che non sa in quale direzione stia muovendosi la propria vita sia così disorientato da potersi più facilmente cacciare nei pasticci, e che se vogliamo un mondo senza delinquenza forse sarebbe il caso che valutassimo l’ipotesi di un trasferimento su Marte?

bufale

E siamo al citizen journalism.
Non ho niente, naturalmente, contro l’idea che chiunque sia a conoscenza di un fatto o di una storia ne diffonda autonomamente notizia.
Ma c’è un fatto: che la quantità di notizie/unità informative da cui veniamo sopraffatti è enorme, e noi non abbiamo alcuna possibilità di verificarne l’autenticità. Tant’è che sempre più spesso si diffondono – magari con la nostra ingenua complicità di lettori, di giornalisti, o di diffusori di cose via web, non importa – bufale di ogni genere.
Naturalmente non sto dicendo che queste cose accadono solo a chi non è del mestiere, cioè – per rimanere nella nomenclatura per così dire ufficiale – ai citizens.

hillary

Accadono, eccome, anche ai giornalisti (tanto per dolo quanto per insipienza), come dimostra la traduzione mainstream della frase di Hillary Clinton («I deeply resent those who attack our country») con un «sono molto ferita» (dalle parole di Bertolaso), quando invece il segretario di Stato intendeva dire di essere «profondamente arrabbiata» (e mi riferisco alle critiche pesanti che Bertolaso mosse agli Stati Uniti per il loro modo di portare soccorso agli haitiani dopo il terremoto).

i lucchetti miracolosi

Quando il giornale dove lavoro stava per lanciare il suo sito internet, tuttora in fase di rodaggio, l’azienda invitò Luca De Biase, il giornalista e blogger responsabile dell’inserto che il Sole 24Ore dedica alle tecnologie, perché ci tenesse un seminario di formazione.
De Biase ci raccontò di quanto importante sia internet, e di quanta reale democrazia abbia portato nelle nostre vite; e per dimostrarlo fece ricorso – tra le altre cose – anche a un esempio.
Eccolo.
Ci raccontò di un lucchetto miracoloso che l’azienda produttrice pubblicizzava come prodigiosamente inattaccabile.
Ci disse che un ragazzino, un bel giorno, si prese la briga di girare un filmatino nel quale mostrava se stesso mentre, in pochi minuti, forzava il lucchetto che il produttore definiva a prova di bomba.
Il filmato, ci disse De Biase, finì su YouTube, e la fama del lucchetto ne risultò polverizzata in un istante.

due problemi

In questa ricostruzione delle dinamiche di creazione della notizia e smascheramento della verità io vedo due problemi, però.
– Il primo è che non tutto è smascherabile, anche per i livelli di complessità delle informazioni;
– il secondo è che per smascherare una falsa informazione, per quanto puntiforme e dunque non complessa, bisogna perforare una fitta nube di rumore.

la maddalena

Per esempio, guardiamo qui.
È Repubblica.it che spiega quanto denaro sia stato sperperato per il G8 della Maddalena poi spostato all’Aquila per necessità che io giudico di propaganda governativa (ma è un’opinione mia).
Io posso benissimo non avere il benché minimo dubbio che questo pezzo dica la verità.
Però domando: se un altro giornale scrivesse, per esempio, che non è affatto vero che l’albergo è costato 742 mila euro a stanza, io che elementi avrei per verificare quale delle due informazioni è corretta?
Il problema non si sposta nemmeno se uno dei due giornali mi facesse vedere le carte, perché io comunque non sarei in grado di escludere che dopo quella carta che io vedo ne siano state redatte altre che ridimensionano le cifre in un senso o nell’altro.

professionisti?

Perché dico questo?
Per dire che il primo problema è quello della complessità degli eventi-notizia.
Ce ne sono alcuni che possono tranquillamente essere comunicati da un cittadino che ne venga a conoscenza.
Ma ce ne sono altri che hanno un livello di estensione e di complessità tali per cui occorre l’intervento di un «professionista dell’informazione» che sia anche sufficientemente credibile. E questo – la credibilità, dico – introduce peraltro un ulteriore livello di complessità del quale per brevità decido di non parlare.

l’esame di maturità

Voglio solo aggiungere una postilla, però.
Un pezzettino in corsivo, una nota a margine.
Da quando l’esame di maturità è stato riformato, per così dire, è stata introdotta la prova di giornalismo. Come se qualunque diciottenne potesse fare il giornalista, perché tanto non sono necessari alcuna preparazione specifica né alcun tipo di specifico apprendistato professionale; e come se qualunque insegnante, privo di qualunque qualificazione giornalistica, potesse valutare di quel diciottenne la competenza giornalistica.
A me sembra estremamente singolare. Però è un altro esempio del fatto che lo statuto professionale del giornalista sta diventando residuale. Con la complicità dei giornalisti, certo; ma anche con l’aiuto di chi vede se stesso come appartenente a un ceto intellettuale che assai più dei giornalisti merita di essere riconosciuto, ascoltato, pubblicato.

la voce

Il secondo problema è che anche nel caso di un’«unità informativa» non complessa, chiunque si trovi a volerla comunicare deve fare i conti con la necessità di perforare in qualche modo la fitta nube di rumore che ci circonda.
Non so se voi crediate automaticamente a tutto ciò che leggete sui giornali, sui blog o su Facebook.
Immagino di no, però. Perché l’autorevolezza è questione di credibilità, sì; ma anche di silenzio.
Solo quando si fa silenzio si riesce a sentire una voce.

l’agenda

In aggiunta a tutto questo, è da sottolineare un’altra cosa: che la cosiddetta «agenda», e cioè la gerarchia dei temi che hanno diritto di cittadinanza nel discorso pubblico, non la facciamo né noi blogger né noi iscritti di Facebook né noi ipotetici citizen journalists, che (tutti) possiamo solamente giocare di rimessa; ma – userò una parola fuori moda – il potere; è il potere che condiziona le agenzie informative, ovvero televisioni e giornali.

le parole

E l’«agenda» è cosa che noi citizens, con o senza la qualifica di journalist, subiamo assai più pesantemente che la singola notizia da smascherare.
E la fissazione dell’agenda avviene non solamente attraverso la scelta degli argomenti e delle notizie, ma anche attraverso la scelta delle parole, contro la quale ci vengono meno le forze, perché per questo (per combattere quest’uso delle parole che tra poco spiegherò perché è per me l’essenza dell’autocensura) ci vuole – ci vorrebbe – la politica. Che invece non c’è.

sensi ideologici

Cosa sono, oggi, i giornali?
Cosa ci vedo dentro?
Io ci vedo la replicazione asfittica di sensi slittati in direzioni ideologiche.
Ci vedo la perdita dei «sensi» storici delle parole.
Ci vedo il luogo principale di creazione di sensi ideologici da condividere a costo zero con i lettori. Da una parte e dall’altra. Politicamente, dico.

scendere in campo

Per capirci: non è che la sconcertante locuzione «scendere in campo» – quella che Berlusconi utilizzò allorché decise di entrare dalla porta principale nei luoghi di cui precedentemente aveva orientato le decisioni per interposta persona (o meglio: «interposte persone», al plurale) – venga utilizzata solamente da giornali di destra.
La usa Scalfari, e senza la benché minima presa di distanza dai significati impliciti della locuzione (che la politica sia in basso e che un imprenditore sia più in alto, per dirne solo due).

meritocrazia

Basta pensare alle parole «merito» o «meritocrazia», delle quali nessuno s’incarica mai di spiegare il significato – a cominciare, è ovvio, dal ministro che ne propaganda ideologicamente il valore, cioè Brunetta – e in realtà servono solo a rassicurare il lettore sul fatto che chi «merita» è lui, e a legittimare la certezza apodittica del lettore che colui che, invece, «demerita» è il suo vicino.

l’expo

Per un esempio di come la scelta delle parole determini l’«agenda» e legittimi solo alcuni dei «pensieri» collettivi, e lo faccia per via di suggestione, secondo me va letto il pezzo su Milano e l’expo uscito in agosto sul Corriere della Sera e riportato sul mio blog.

accettare è autocensura

Per quel che io ho visto nella mia esperienza, accettare e utilizzare acriticamente le parole degli altri, e per giunta nel significato che gli altri hanno attribuito loro significa accettare l’autocensura.
Significa rinunciare a guardare alle cose da ogni altro possibile punto di vista
.
Significa continuare a replicare ai razzisti, per esempio, con argomenti quantitativi.
Mi riferisco alla relazione «immigrati uguale criminali» che la cosiddetta stampa di sinistra immagina di poter confutare portando numeri. E voglio ripetere: cosa succederà quando i numeri le daranno torto? Può sempre succedere, no? A quali argomenti ricorreranno? Si renderanno finalmente conto della necessità di replicare con argomenti qualitativi e non quantitativi?
Si renderanno finalmente conto della necessità di replicare con le idee? Con le parole che parlano delle loro idee, e non delle idee degli altri?

censura

Sulla censura io non voglio spingermi molto più avanti del punto a cui ero arrivata all’inizio del mio intervento citando i titoli su Tremonti che il giorno dopo uscirono cambiati, e senza alcun riferimento al partito-monarchia di cui egli aveva parlato.
Dico solo che gli esempi sono molteplici, quotidiani e a volte perfino ridicoli.
Non credete a chi vi dice che non c’è censura, che non ne ha mai patita: è più facile che l’abbia patita inconsapevolmente, per il fatto di essersela inflitta autonomamente, da solo, magari senza accorgersene.

la democrazia della paletta o dello zecchino d’oro

Infine.
Una parola sulla democrazia della paletta, sulla democrazia dello Zecchino d’oro, che è – secondo me – una delle storture più curiose della Rete, prontamente ripresa dai giornali; e dipende, però, da un fenomeno esterno al sistema della comunicazione (secondo me dipende dall’assenza della politica).

appelli e firme

Repubblica.it ci invita a sottoscrivere l’appello di Saviano (vedete? Giornalisti fuori e «intellettuali» dentro) dicendoci «siamo a cinquecentomila firme».
Facebook ci dà la possibilità di identificarci coi bannerini verdi che inneggiano all’opposizione iraniana contro Ahmadinejad e a favore di Moussavi (come se noi sapessimo abbastanza cose da poter decidere a occhi aperti che Moussavi è meglio, per brutalizzare, di Ahmadinejad; come se conoscessimo la storia del Paese).
La Rete ci invita al Vaffanculo-day.
La Rete ci fa diventare «popolo viola».
I giornali e la Rete ci avevano fatto diventare Girotondi.
Ci trasformano in «donne non disponibili» per Berlusconi ma disponibili a dare la nostra foto al giornale.
Ci trasformano in gente che può solo decidere se votare sì o no. Magari «non so».
Che alza la paletta del voto come la giuria dello Zecchino d’Oro, appunto.

la morte della politica

I giornali attestano la chiusura dello spazio della politica, della mediazione tra contenuti e istanze diverse.
Morto il proporzionale, muore la rappresentanza.
Muore la composizione degli interessi legittimi dei pezzi di società.
Muoiono i pezzi di società.
Morta la classe, muore l’interesse di classe.
L’unico interesse è quello delle aziende, che se guadagnano fanno avanzare il Paese.

Noi siamo monadi che si illudono di stare insieme, di fare comunità, e di pensarla tutti alla stessa maniera grazie al fatto che quando che lo chiedono alziamo una paletta su cui c’è scritta la stessa cosa.
Ma poi proviamo a discutere, su questa piccola cosa.
Proviamo a vedere su quante delle singole cose che compongono questa cosa siamo effettivamente d’accordo.
Proviamo a vedere quale consapevolezza politica ci possiamo costruire; quale itinerario politico per il cambiamento delle cose.
Gli effetti, credo, sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.

cos’è il blog

Per me, il blog è uno spazio in cui, forse,
– io posso ridurre il mio rumore, il rumore intorno a me (ovviamente, da un punto di vista completamente soggettivo, il mio);
– posso dire quel che ho da dire rifiutando il piano inclinato dei significati altrui;
– posso rifiutare la censura e l’autocensura;
– posso entrare in relazione con persone con cui diversamente non entrerei mai in relazione, probabilmente;
– posso esplicitare la mia chiave di lettura;
– posso resistere alla mia estromissione dal cosiddetto «ceto intellettuale».

relazione umana

Ma non mi è ancora completamente chiaro che cosa posso costruirci, se non relazioni umane.
E forse – io ho cominciato a pensarlo da un po’ – le relazioni umane sono l’unica cosa veramente importante della vita.

un’amica

Ma un’amica a cui ho fatto leggere quest’intervento mi ha scritto questo commento:
«Immagino tu scriva pensando anche che chi ti legge possa ritenere utile ciò che legge. E questa non è immodestia (uno può sempre scegliere di non leggerti). Quel che costruisci è anche la possibilità per chi ti legge di “vedere” quel che prima gli era sfuggito, per iniziare a sfuggire alla “democrazia della paletta”. (…) Magari non cambia nulla, ma magari no».

la radiografia e la scarnificazione

Ecco.
Ritiriamo fuori dal sottoscala del cervello l’Ansa con cui abbiamo cominciato, quella sull’Afghanistan; o l’altra notizia, quella su Haiti e Bertolaso.
Io non so se riesco a fare quel che la mia amica mi ha scritto.
Però so che se c’è un luogo per fare la radiografia alle notizie, scarnificandole dalla costruzione ideologica, quel luogo non può essere un giornale.