l’invidia (raffinata), saviano e berlusconi

Succede una cosa curiosa.

Succede che in un pacatissimo scambio di opinioni in calce a questo mio post, ci si confronti su alcuni punti relativi alle conseguenze politiche dell’azione di Roberto Saviano, senza fare riferimento al libro ma alle sue prese di posizione pubbliche successive.

Succede che dopo avere io argomentato le ragioni per le quali a me Saviano sembra ben inserito nella logica di mondo espressa dal berlusconismo (ma nata – scrivevo – prima di Berlusconi), mi venga eccepito questo:

a) che uno dei miei argomenti (che i fenomeni non sono nati nel momento in cui ne ha preso coscienza Saviano) è «curiosamente ripreso da quasi tutti gli “avversari” di Saviano» (laddove non vedo tutta questa «curiosità» nell’essere d’accordo con chi è d’accordo con me);

b) che quell’argomento «implica il giudizio che Saviano sta occupando “illegittimamente” quel ruolo mediatico. Come se, assurdamente, si trattasse di un premio al primo arrivato»; e inscrive il «risentimento» che contro Saviano provano le persone che lo criticano (in realtà io criticavo la Rete, di cui ho fatto parte come fondatrice del gruppo veronese, sostenendo che quell’azione abbia aperto le porte al berlusconismo. Non sono certo io a sostenere che l’unico interlocutore legittimo, al mondo, sia quello che arriva per primo. Ho detto, al contrario, che le conseguenze politiche dell’azione di Saviano si inscrivono in fenomeni che son partiti prima di lui, e che sarebbe ora che ci si rendesse conto che Saviano non è l’anno zero. Come questo implichi la censura verso coloro che non sono arrivati per primi non mi è chiaro);

c) che – forti dell’analisi di Umberto Galimberti – si può ben dire che «“se è vero infatti quel che dice Spinoza, secondo il quale l’esistenza è forza che può conservarsi solo espandendosi, l’invidia tende a contrarre l’espansione degli altri per l’incapacità di espandere se stessi, per cui è un’implosione della vita, un meccanismo di difesa che, [evidenzierei questo:] nel tentativo di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla, per arrestarne lo slancio”». Si può perciò inserire anche me, e con quale facilità, dentro quest’«invidia», questo «risentimento», partecipe di «questo conflitto. Dove si scatena una ‘invidia’ a livello collettivo», della quale posso non essere conscia io ma consci certamente ne sono Galimberti e il mio interlocutore;

d) che è incomprensibile la ragione per cui «non ci si occupi con la stessa “febbre” di altri beneficiari del potere dei media» (purtroppo con la stessa «febbre» mi occupo di molti altri «beneficiari del potere dei media», fin da quando il blog vive);

e) che ci si occupa (l’impersonale è fantastico: niente di specificamente diretto a me, ci mancherebbe; siamo nel campo dell’analisi sociologica) di Saviano più che di altri (non importa che sia vero oppure no, chisseneimporta), perché si considera che «Saviano nell’immaginario di tutti si prende uno spazio culturale che spetterebbe – per capacità, preparazione, stile – a molti altri». Saviano, insomma, dai suoi detrattori (schiera alla quale ope legis sono stata annessa) è visto come un usurpatore; il punto f) chiarisce meglio;

f) che «i piccoli altri sono toccati dall’esser stati fagocitati in massa (sempre rispetto all’immaginario collettivo) da una sola persona. La sensazione è: sta parlando al mio posto; ‘agli occhi della gente’ la cultura anticamorristica è incarnata in Saviano: tradotto: sta rubando uno spazio non suo, che è mio, o di coloro che condividono con me una identità collettiva (coloro con i quali ci sentiremo di dire “noi”)». L’analisi è bella che fatta: voi, collettivamente (di nuovo: niente di personale, ci mancherebbe altro), pensate senza saperlo che, nientedimeno, Saviano ruba;

g) che «l’invidia è, nel suo sedimento più sottile, come ben dice Galimberti: un tentativo di salvaguardare la propria identità, comprimendo lo spazio altrui. Saviano sta prendendosi uno spazio che “ci” appartiene, come pubblica opinione, come cittadini, come attivisti, come giornalisti, come intellettuali. Questo, ne sono certo, sta avvenendo ora rispetto al “simbolo” Saviano, anche se a livelli più subdoli, sublimati, raffinati. In gioco c’è una identità culturale collettiva» (cioè: critico Saviano e dunque sono invidiosa, ma eventualmente a livelli più subdoli, sublimati, raffinati, anche se in realtà comprimo lo spazio altrui per salvaguardare la mia identità);

h) che io abbia sostenuto che «Saviano preparerebbe il campo al berlusconismo» (in realtà ho detto esattamente l’opposto, e rifacendomi anche all’esperienza «no-destra-no-sinistra-legalità-bipartisan» della Rete, a cui ho partecipato).

Tralascerò tutto.

Tutto.

Mi concentrerò solo su un punto: che l’argomento dell’invidia è tremendamente berlusconiano.

Che a scomodare questo sentimento come chiave di lettura di fenomeni politici è stato Berlusconi.

Che a dire che i «comunisti» ce l’hanno con lui per invidia è stato Berlusconi.

Che a sostenere che i «comunisti» hanno «invidia sociale» è stato lui.

Non mi risulta che, precedentemente, la parola «invidia» sia stata utilizzata in chiave politica da un esponente delle istituzioni. «Invidia di classe», «invidia sociale», e adesso ecco l’«invidia di identità».

Ora.

Secondo me, giudicare le critiche argomentate (e opinabili, ovviamente) nei confronti delle conseguenze politiche dell’agire di Saviano secondo la lente dell’invidia fa un grave torto alla serietà delle ragioni altrui.

Testimonia piuttosto chiaramente quanto profonda sia la divisione in fazioni sull’azione di Saviano.

Ecco. E io sono proprio stufa di non poter parlare senza che mi si annetta alla fazione di qua o a quella di là.

Ho delle idee. Ma quando si tratta di Saviano esse non sono ammesse. Ovvero: sono ammesse, ma bisognerebbe evitare di esprimerle.