giornalismo e repressione

Vado su Repubblica.it, stamattina, e vedo che l’apertura riguarda l’incidente in cui, in provincia di Caltanissetta, sono morte quattro persone, fra cui il vice questore aggiunto della polizia stradale di Palermo e il padre.

Vado sul Corriere.it e vedo che l’apertura è sulla stessa notizia.

La notizia c’è; non ho intenzione di negarlo.
Ed è anche vero che è agosto.
Però lo stesso mi è venuto inevitabile farmi una domanda.

Perché le notizie di «nera» – ma soprattutto quelle relative agli incidenti stradali – sono sempre state considerate (cinicamente, lo so) il «bene-rifugio» del giornalismo di provincia caduto in fiacca di notizie (in estate, per esempio), e adesso la nera e gli incidenti stradali diventano le aperture dei nazionali?

Di sicuro la recente centralità del tema «straniero-meglio-se-irregolare-uguale-criminale-anche-in-macchina» ha prodotto c’è un effetto inerziale che ha spinto un po’ tutti a rifocalizzarci sul tema collaterale dell’incidente stradale.

Di sicuro, e forse ancora prima, c’era stata la smisuratamente lunga campagna sulle cosiddette «stragi del sabato sera», e conseguentemente l’attenzione era stata reindirizzata verso la questione dell’alcool e delle droghe.

Di sicuro – ripeto – è estate e le notizie scarseggiano.

Ma una cosa rimane vera, però.

Che l’idea di mondo che sta dietro a un giornalismo che tanto enfatizza incidenti stradali indotti dalla velocità o dalle droghe o dall’alcool, indipendentemente da tutto il resto (e cioè anche da tutti i buoni motivi che in questo possano eventualmente essere reperiti ed esaminati), è indubitabilmente un’idea che si presta a percorrere la strada della soluzione-panacea repressiva.

Corri troppo in macchina e fai un incidente? Cambiamo la legge in senso restrittivo, a meno che non ci siano tre corsie e non splenda il sole.

Hai preso droga? Estendiamo i test a tutti i conducenti professionali dei mezzi di trasporto.

Hai bevuto? Portiamo a zero i tassi alcolemici tollerati per chi guida.

Hai ucciso italiani e tu che guidavi eri straniero? Cambiamo il codice penale e alziamo le pene per l’omicidio colposo.

Magari sbaglio, però mi piacerebbe che non dico diecimila, ma almeno cento dei miei colleghi si fermassero un momento, un giorno, davanti alla loro tastiera,  e lasciassero per un momento stare le questioni di carriera, il collega che minaccia di far loro le scarpe, il direttore che pretende cose assurde, la fonte che pretende di dirti cosa scrivere, il vicino di banco che s’è lavato poco, il lettore che ti considera una merda troppo pagata e vuole insegnarti il tuo lavoro, la freelance con la vocina che non vede l’ora che tu vada fuori dai piedi per prendere il tuo posto e se può darti una mano a cadere volentieri si presta, l’editore che vuole censurarti, la tua vocina interiore che ti dice «sta’ attento a ciò che scrivi, ricordati che hai famiglia»…

Be’, mi piacerebbe che cento miei colleghi si fermassero, si guardassero intorno, tirassero un respiro e si domandassero ma che cosa sto scrivendo? Come sto gerarchizzando le notizie? Che mondo sto mettendo in luce? Cosa tengo in ombra? Quel che emerge dal mio lavoro è sufficientemente conforme a ciò che a occhio nudo si vede, oppure a poco a poco, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, titolo dopo titolo, sto creando un universo alternativo che è funzionale a qualcuno?

Voglio veramente questo?

Se la risposta è sì, tutto a posto.

Ma se è no, non sarebbe ora che recuperassimo il senso delle nostre carte deontologiche, il senso civile del nostro lavoro? Che ridessimo credibilità e valore alla nostra parola?