marchionne, o caro

Dal palco di Comunione e liberazione, Marchionne dice: «Basta conflitti fra operai e padroni» (vedi qui), corroborando la legittimità della sua inedita e coraggiosa presa di posizione con un argomento evergreen: qualunque altro modo di vedere le cose, secondo lui, è un «vecchio schema» che naturalmente impedisce di gustare gli splendidi panorami che ci si preparano: cosa che egli immaginosamente chiama «nuovi orizzonti».

Ora.
Quando si tratta di conflitto, mi perdonerete la semplificazione, esistono solamente due possibilità.
La prima è che il conflitto esista, perché ce ne sono le condizioni.
La seconda è che il conflitto non esista, perché non ce ne sono le condizioni.


Se non esiste, va bene: siamo tutti a posto e non c’è problema.
Fra me e la Moric, per dire, non c’è conflitto, perché – per scegliere uno solo dei possibili terreni di conflitto, ma potrei estenderlo a molti altri campi – io non interesso a Corona né a me interessa lui. È chiaro, però, che se lei e io veniamo interpellate a proposito dell’idea di donna e di femminilità che abbiamo, la possibilità che ne nasca un conflitto è una prospettiva credibile.

Se però il conflitto esiste, non sarà la decisione di fingere che non ci sia ad eliminarne la realtà. Con la Moric, per rimanere all’esempio, potrò forse trovarmi d’accordo sulla maternità – non so, faccio per dire – o sulla paura della morte; ma non sul fatto che aumentare le labbra e il seno dia volume alla propria femminilità. Lì non c’è granché da fare: si dovrà prendere atto che non siamo d’accordo, anche se io sono perfettamente disponibile ad ammettere che lei è molto più bella e sessualmente appetibile di me.

Per tornare a Marchionne: il padrone fa il padrone.
Il lavoratore fa il lavoratore.
Francamente, non riesco a immaginare una situazione in cui più chiaramente si dia per postulabile l’esistenza – certamente gestibile in termini negoziali civili e rispettosi – di un conflitto.

C’è chi pensa – oh, quanti! – che se un’azienda prospera, beh, allora prospera pure il lavoratore e prospera addirittura l’intero Paese e con esso le galassie.
Il che è un po’ come dire che se i padroni guadagnano è un bene per tutti.
Il che è a sua volta un po’ come dire che la vera priorità è far star bene – ricchi, intendo – i padroni, che all’uopo abbiamo smesso di denominar padroni, preferendo locuzioni più elegantine e sottotono.

Ora. A parte il fatto che nessuno garantisce che un padrone reinvesta a beneficio altrui (dipendenti, società in generale…) i suoi utili, io vorrei pure dire che per me la priorità continua a rimanere quella di far star bene – non «ricchi», ma decentemente – coloro che per brevità chiamerò poveri.

Penso che nella vita si tratti di scegliere.
Fare la parte del diavolo e dell’acqua santa, contemporaneamente, come fa Marchionne – e come lui molti e molti di questi manager e imprenditori che si ritengono l’ossatura del Paese senza che nessuno riesca a toglier loro dalla testa che un po’ di modestia e di onestà intellettuale non hanno mai ucciso nessuno – è secondo la mia modestissima opinione un’operazione immorale. Magari non individualmente immorale (e poi chissà…), ma politicamente immorale certamente sì.

Dice: oh, come la fai esagerata.
Forse.
Ma ognuno è quel che è.
Se uno è padrone o emissario del padrone, che si assuma la responsabilità di esserlo e ne paghi le conseguenze, ché a fare il dipendente c’è già chi ci pensa.

Anche perché, se proprio vogliamo dirla tutta, un padrone/emissario del padrone può benissimo giocare a fare la parte dell’operaio, ma il procedimento simmetrico e opposto non è dato: un operaio non potrà mai – per questione oggettiva, direi – fare la parte del padrone.

Questo mi parrebbe un argomento sufficiente a rimettere nei binari corretti la discussione paradossale che Marchionne pretende di fare.
E invece no.
I padroni e gli operai sono dalla stessa parte, bella gente.
Siamo tutti figli dello stesso dio.

Almeno fino a che si tratta di condividere il rischio d’impresa, si capisce.
Perché questo benedetto rischio d’impresa non c’è più nessun padrone che voglia assumerselo per intero: un po’ è dello Stato (e vabbè: qui già capisco di più, visto che lo Stato ha ben il compito di intervenire per evitare, in emergenza, che le persone siano senza lavoro e senza reddito), e un altro po’ è del dipendente.

Che un dipendente partecipi agli utili dell’azienda in cui lavora è, secondo me, concettualmente insostenibile.
Che possa servire ad abbassare il grado di conflittualità posso pure immaginarlo.
Però porta con sé l’altra e più pesante conseguenza che quando ci sono perdite, eh, che ci volete fare, cari operai, dovete capire, siamo una grande famiglia, e quindi ve ne dovete andare, o dovete accettare paghe più basse, o dovete accettare meno diritti.
Non vi piace?
Oh santa pace, ma come siete demodé.
Mio dio.
Non li vedete questi nuovi orizzonti?
Ma siete proprio ciechi, eh?

La cosa che non smette mai di sorprendermi è quanta sia la gente che ci casca. Forse perché ci sentiamo un po’ tutti dei piccoli capitani d’azienda, nel nostro immaginario allevato al transgenico televisivo.

Chissà.