l’altrove di un altro

Stasera ho chiacchierato con una persona.
Non è di Verona.
È venuto qui – mi raccontava – per dar corpo a un suo sogno, assecondando una specie di voglia di fuga che mi pare di aver capito gli si è mossa dentro per tutta la vita.
La persona con cui sta – mi ha detto – è di qui, ma si sono conosciuti all’estero, in un Paese molto lontano.
Vivono in campagna, adesso; poco fuori dalla città.

A me, che attraverso questo posto con un senso crescente di (dolorosa) estraneità esistenziale, è sembrato incredibile che qualcuno possa vivere Verona come il suo «altrove» personale, il nido a dimensione di sé.
Forse, quando si cambia vita (e ci si sente fiduciosamente artefici del proprio destino, e arbitri delle proprie scelte), la merda che ci cola addosso non entra veramente nei pori perché non è la nostra merda e per scrollarcela di dosso basta una doccia.


Quanto a me, di questo posto amo solo le pietre, ciò che si presenta agli occhi. Amo il ricordo di me piccola per queste strade e queste piazze.

Mi sentivo padrona dei luoghi. Sentivo di dover essere padrona dei luoghi, perché avvertivo la responsabilità – una delle tante – di essere io il mezzo attraverso il quale lo sradicamento di mia madre poteva stemperarsi in un possibile senso di appartenenza.
(Non ha funzionato così.
Sono parecchie le responsabilità di cui mi sono caricata inutilmente. Ma forse le intenzioni sono più importanti dei risultati; forse sono i moventi, e non gli obiettivi, che ci informano di sé).