il fiume, il rigattiere, i sedicenni e il mio lavoro

Che bella giornata. Faceva quasi caldo, il cielo è stato – a tratti – quasi completamente turchese.
Io, naturalmente, ero vestita come per una spedizione sull’Himalaya.
Scicchissima.
Ho costeggiato il fiume in direzione del mare, sono passata davanti alle statue della Irish Famine che col buio erano immensamente più suggestive.
Quanti ubriachi.
Una donna molto trascurata piangeva a dirotto su una panchina.
Una biondolona con le cosce di fuori ballava davanti a un gruppo di amici bevendo vodka da una bottiglia.

Sul quay c’era un rigattiere che aveva cose bellissime.
Mi son fatta tirare fuori una brocca di cristallo – vetro? – di un rosa intenso violaceo.
È vittoriana, mi ha detto il rigattiere. Centoventi euro.
Poi mi guarda e fa: where are you from?
I’m from Italy.
Oh, dice. Tell me: quali sono le ultime novità sul vostro Berlusconi? Qualche idea del perché tante ragazze giovani e belle vanno con lui?

Perfino il rigattiere di Custom Quay.
Son soddisfazioni.
Grazie, signor Berlusconi.

Ho comprato quattro libri.
Viaggio con l’Aer Lingus: non sono costretta a mettere la mia borsa dentro lo zainetto, perciò nello zainetto c’era spazio per qualcos’altro.
Sono miei, adesso, «The boy in the striped pijamas» di John Boyne, «The salesman» di Joseph o’Connor, «Scissors paper stone» di Elizabeth Day, e un libro che si intitola «With love from me… to me. A letter to my sixteen-year-old self».
Non so come sarà, ma l’idea è fantastica.

Sul retro di copertina c’è scritto: «Se potessi scrivere una lettera al te stesso sedicenne, dal punto di vista di ciò che sei ora, cosa scriveresti?».
Il progetto ha coinvolto un certo numero di irlandesi famosi (e vabbè). Ci sono anche le loro fotine da ragazzini.

L’idea, veramente, è spaziale.

Al corso, stasera, Henry McDonald ci ha fatto un sorpresone: ha portato il corrispondente da Londra e Dublino del quotidiano spagnolo El Mundo.
Si chiama Eduardo Suarez e ha – sì, non sto sbagliando – trentun anni.
È a Londra dal 2005.
Beh.
La conversazione è stata interessantissima.
Ci son cose che mi fanno ricordare con gioia i motivi per cui ho scelto di diventare giornalista.
Succede di rado, purtroppo, ma quando succede è un’emozione forte.
Ho amato il mio lavoro come la più devota e sconsiderata delle amanti.

Pensavo che la storia d’amore fosse finita, che non restassero che cocci.
Oggi, parlando con McDonald e Suarez, ho capito che fare quel che fanno loro mi piacerebbe da impazzire.
Raccontare le storie di un posto che non è il tuo.
Meraviglioso.
E poi.
È bello scoprire che si guarda alle cose di lavoro dallo stesso punto di vista, per il solo fatto che si è giornalisti, anche se si fanno vite professionali tanto differenti in luoghi tanto differenti.

Bello.
Mi sentivo volare, come se per il mio lavoro ci fosse ancora qualche speranza, ancora qualche angolo in cui è possibile farlo.
Uno spiraglio, uno straccio di perché.
Dio, quanto l’ho amato, questo idiota di lavoro.
E quanto le circostanze hanno reso controproducente quest’amore.
A volte penso che potrei trafiggere con una spada il cuore di tutti quelli che hanno tolto senso alla mia passione professionale.
Quelli che mi hanno chiesto cinismo; che mi hanno chiesto di non fare la mia professione, ma una specie di spalamento di merda.
Quelli che si son fatti beffe delle mie capacità.

Quelli che han voluto schiacciarmi per motivi che non ha neanche senso raccontare.

Sì, li detesto.
Auguro loro tutto il male del mondo.
Loro non lo capiranno mai, ma non hanno semplicemente condotto la loro miserabile lotta per quel tozzo di pane ammuffito che hanno il coraggio di chiamare potere, ma hanno ucciso la passione di una bambina.
Il bambino dentro di loro l’hanno già ucciso da secoli.
Adesso, uno alla volta, devono uccidere quelli dentro gli altri.

Questo posto mi fa sentire viva.