giornalisti sotto ricatto

Henry McDonald – sempre lui, sempre il corrispondente del Guardian, dell’Observer e di un certo numero di altre testate – raccontava che, camminando per la strada, ha trovato uno di quei fogli che in fondo hanno quella specie di frange mezze pretagliate su cui viene scritto il numero di telefono di una persona.

Era l’avviso di un fotografo che sta seguendo un progetto: fotografare i volti delle persone che sono nelle sale d’aspetto dei medici, in attesa di essere ricevute.
«Ecco», diceva: «a volte basta anche una cosa del genere, una sciocchezza, un foglietto, per dare vita all’idea di una news feature da raccontare».

«In radio», diceva, «si dibatteva dell’opportunità di costruire l’unico ospedale irlandese specializzato in patologie infantili a ovest di Dublino, e il collega che parlava spiegava che il 75 per cento dei bambini irlandesi vive fuori dalla capitale. E questa», per Henry, «è un’altra storia da scrivere. Sentiamo: voi come fareste? Da dove comincereste?».

Dalla verifica dei dati citati alla radio, ovviamente.
«E poi?».
Poi si cerca una storia, una famiglia che ha una storia da raccontare.
«E poi? Cosa serve a un giornale?».
E poi la foto; anzi: le foto.

Una delle corsiste che lavora al servizio di salute mentale raccontava che in una tal clinica che non ho capito molti ragazzini di 15 o 16 anni che sono costretti a fare la dialisi due o tre volte la settimana manifestano intenzioni suicide perché per arrivare all’ospedale devono fare viaggi molto lunghi e faticosi, che interrompono la loro vita.

Abbiamo letto una storia carinissima, che il Post ha ripreso.
Cominciava così:
«Buckingham Palace. Bath. Stonehenge. Clarks Village».
Bell’attacco, eh?
Beh. La storia è che i cinesi accorrono a frotte al centro commerciale Clarks Village (costruito sul luogo della vecchia fabbrica), e quel luogo è una delle mete turistiche più frequentate.

Poi abbiamo letto un’altra storia con un attacco ugualmente bello: «La maggior parte dei Paesi non sarebbe così entusiasta di esser definita la repubblica delle banane. L’Uganda ne va fiera. Un adulto, qui, mangia in media ogni anno una quantità di banane pari ad almeno tre volte il proprio peso». Solo che un batterio sta distruggendo tutte le piantagioni, e si sta seriamente pensando di ricorrere agli ogm.

Soprattutto a proposito dei primi due esempi, la conversazione al corso è stata infinitamente più stimolante e produttiva – anche in termini concreti, perché poi abbiamo anche scritto – di una qualunque riunione di redazione a cui io abbia mai partecipato.

La cosa più incredibile, come cercavo di spiegare a Henry e agli altri che frequentano il corso, è che – fatta salva qualche minima e lodevolissima eccezione – in Italia di storie come quella del fotografo che cerca le storie e le facce delle persone in attesa dal medico, o quella dei bambini che per curarsi devono fare chilometri, correrebbero il rischio di non trovare nessun posto dove essere pubblicate.

«Perché?», mi ha chiesto McDonald. «Pezzi di questo tipo costerebbero forse di più alle aziende?».
Vàgli a spiegare che le pagine devono andare riservate all’affermazione della propria immortale servitù al potere.
Vàgli a spiegare che le notizie non interessano a nessuno, che spesso non te le fanno nemmeno dare.

«That’s incredible», ripeteva. «Mi stai dicendo che voi non cercate storie come queste perché nessuno ve le pubblicherebbe?».
Sì, gli dicevo questo. E gli dicevo anche che trovare le notizie a volte crea problemi ai giornali, che ormai si reggono sull’ortodossia politicamente fruttuosa dei comunicati stampa e delle agenzie.

Sono uscita di lì con la testa bassa.
Da un lato è bello sapere che non è che in giro c’è tutto un pezzo di mondo che ha un’idea di giornalismo sostanzialmente non servile, gregaria e schierata.
Dall’altro è tremendo pensare che nessuno di noi giornalisti si alza in piedi e dice «ma cosa stiamo facendo? Cosa scriviamo? Come lo scriviamo? Perché serva a chi? Cosa nascondiamo?».
È tremendo che noi siamo qui a far finta che sia normale avere le notizie e non scriverle, o non cercarle, o non capirle, o non notarne le incongruenze, o mimetizzarle, o mistificarle, o vendersele sul mercato dei favori esterni al giornale.

È tremendo che noi facciamo finta di credere che il problema dell’informazione sia Berlusconi (che, per carità, non sono sicura che aiuti), quando invece gli snodi micidiali passano attraverso i giornali medio-piccoli – non solo perché probabilmente è lì che si forma un’idea di giornalismo ed è lì che si apprende cosa possiamo chiedere, da lettori, a un giornale, ma anche perché i medio-piccoli sono infinitamente di più dei grandi quotidiani – e, soprattutto, attraverso la democrazia interna e i rapporti di potere che esistono nei giornali.

Come si può pensare che quando ci viene proibito di dare le notizie noi taciamo?
Come si può pensare che abbiamo così paura da non protestare?
Com’è possibile che siamo proprio noi, magari, e nemmeno l’editore, a censurare i colleghi?
Com’è possibile che fuori non si sappia niente di quel che accade nei giornali?

Per l’ennesima volta mi sento costretta a ripetere che tutti coloro che parlano del pluralismo come se fosse una questione che si risolve moltiplicando le testate o magari creando testate di diversi orientamenti politici, beh, non capiscono niente.

Certamente – e questo è vero – noi giornalisti non li aiutiamo a capire.
Ma resta il fatto che la questione della libertà del singolo giornalista dalle pressioni indebite, dai ricatti, dalle minacce e dall’intervento dei poteri esterni alla redazione, per i quali direttori e capi funzionano da solerti e acritiche cinghie di trasmissione, è nodale, e andrà pure affrontata, prima o poi.

In teoria, questo è un lavoro al quale occorre coraggio.
E se non abbiamo neanche il coraggio di dire di no a chi ci ricatta o ci minaccia dentro le redazioni, beh, forse sarebbe il caso che ci domandassimo perché non siamo andati a fare un altro lavoro.
Va da sé che un altro lavoro – ma non dirò quale, ma in genere non è un lavoro che prevede la presentazione di un modello 730 o affini, e non perché si tratti di meretricio – dovrebbero fare anche quelli che ricattano e minacciano i colleghi.

A proposito.
Prima che qualcuno – li conosco, purtroppo: pare impossibile, ma ci sono – venga a dirmi che siccome ho uno stipendio dovrei evitare di parlare, perché hanno diritto di parlare solo i precari, ai quali io (savasandìr) rubo il posto, ripeto anche un’altra cosa: che sopportare – proprio fisicamente, dico; a tal punto che a volte la salute ne risente, e chiedo scusa a chi pensa che se non c’hai il fisico devi stare a casa – le angherie interne è già difficile.
Molto difficile è anche sopportare le critiche da destra, da quell’area di totale incultura istituzionale che eviterò di menzionare per generosità.
Ma assolutamente inaccettabile è tollerare queste critiche – lo dico? Lo dico – del cazzo da gente che sostiene di essere di sinistra.

D’altra parte, sostiene di essere di sinistra perfino Renzi.