o l’impresa o la vita

Dice la Confindustria che le pesanti condanne per l’omicidio dei sette lavoratori nello stabilimento torinese ThyssenKrupp possono «allontanare gli investimenti esteri», e «mettere a repentaglio la sopravvivenza del nostro sistema industriale».

A tal punto gli imprenditori di questo Paese ritengono pericolosa la sentenza da aver applaudito (ma dopo sono arrivate le patetiche scuse) l’amministratore delegato Thyssen (condannato in primo grado a 16 anni e mezzo di reclusione) alla recente riunione a porte chiuse di Bergamo.

Una persona affidabile e – soprattutto – esperta mi faceva ieri notare che fra le panzane ideologiche che girano indisturbatamente c’è quella che questa sentenza possa allontanare gli investitori dall’Italia.
«Se se ne andassero», diceva, «andrebbero in Paesi in cui le condizioni di sicurezza sul lavoro sono più precarie di quanto già non siano qui. E sa perché?», mi domandava. «Perché gli stranieri vengono in Italia proprio perché la situazione consente loro di evitare tutti quegli obblighi che, in fatto di sicurezza, in Germania e in altri Paesi dovrebbero onorare».

Praticamente, insomma: l’Italia è attraente per gli imprenditori stranieri nella misura in cui consente loro di attenuare il grado di vigilanza e di prevenzione, risparmiando costi che altrove sarebbe impossibile risparmiare.
L’Italia non attrae per altro che per la sua arretratezza, per usare una categoria che anche un imprenditore poco dotato è in grado di capire.

Un imprenditore straniero viene qui perché sa che qui se anche ammazzi i lavoratori, te la cavi con un omicidio colposo perfino se non hai messo in atto, e con piena consapevolezza, nessuna delle cautele alle quali formalmente saresti tenuto per legge.

Quanto alla configurazione del reato per il quale l’amministratore delegato Espenhahn è stato condannato, ovvero l’omicidio con dolo eventuale, essa implica la considerazione che i giudici del processo di primo grado hanno ritenuto provato il fatto che l’azienda conosceva bene la situazione di grande rischio nella quale i lavoratori erano costretti a operare, e aveva consapevolmente accettato il rischio che dalla sua condotta potessero derivare conseguenze potenzialmente anche letali per chi lavorava in quello stabilimento in via di dismissione.

Chi conosce i rischi di una sua azione o di una sua omissione e cionondimeno evita di modificare i suoi comportamenti, tiene una condotta in cui dimostra che la previsione di un evento anche pesantemente avverso agli altri è giudicata secondaria o irrilevante; rischio accessorio a un beneficio, per esempio.

Perciò, in sintesi, se quel mio esperto interlocutore ha ragione, dire che la sentenza Thyssen allontana gli investimenti esteri è confondere la causa con gli effetti; perché in Germania, ad esempio, nessun’azienda avrebbe mai potuto esporre i suoi dipendenti a simili rischi.

Se questo è vero, il fatto che la Confindustria difenda un sistema lasco di sanzioni dà la misura della statura della classe imprenditoriale di questo Paese.
Dire come fa la Marcegaglia che la sentenza Thyssen mette «a repentaglio la sopravvivenza del nostro sistema industriale» equivale a dire che il rischio d’impresa è dei lavoratori; e anche il rischio della vita.