a distanza di millimetri e anni luce

Ieri sera per la prima volta, salendo le scale per andare a letto dopo avere spedito un lavoro, ho avuto la percezione che la stanza dove dormo da pochi giorni sia la mia stanza.
L’ho sentita appartenermi.
Mi piaceva.
Le tende vinaccia drappeggiate; la finestra di legno marrone, lucida e vecchia.
La moquette pied-de-poule.

Per la prima volta ho percepito l’intensità con cui mi mancherà quando ce ne andremo da qui.
Ho sentito la nostalgia preventiva, quella di sempre (sai, Clizia?).

Oggi pomeriggio, mentre tutti, qui, erano davanti alla tv a vedere la finale della Celtic League di rugby fra Leinster (la regione di Dublino) e Munster (la regione di Limerick, dove ora sono), tornavo in macchina verso casa dopo aver fatto la spesa.

Non ho visto macchine per chilometri.
Solo alberi maestosi, giganteschi, frondosi, grassi, enormi.
Prati.
Siepi.
Una striscia grigio scuro che si allargava e si restringeva, curvava e si reindirizzava verso un fuoco al centro del parabrezza, e fiori, e verde, mille verdi differenti.

Stasera c’è una qualche partita di calcio, Barcellona-Manchester per non so quale trofeo.
Giovanni è andato a vederla per conto suo, appena dopo cena, nella lounge dell’albergo che c’è qui vicino; in tasca aveva cinque euro e cinquanta centesimi, tutti in monetine.
Magari voleva un’acqua tonica. «La Coca no, mamma, perché c’è la caffeina».

Ora è andato da lui anche Marco, per non lasciarlo troppo tempo solo. In fondo è piccolo, anche se è grande. E in fondo è sera, anche se qui è ancora chiaro e le nuvole corrono velocissime.

Mi fa piacere restare da sola qui.
Il posto sta diventando mio.
Il camino è spento, ma è bello sapere che c’è.
Il giardino sul retro.
La kettle.
La musica dei Fromseier Rose (cliccare per ascoltare) che esce dalle minuscole casse attaccate al portatile. «Son clair comme le cristal», diceva la scatola. Beh, non è un gran cristallo. Però sento, ascolto «Bittern Pipers Beast»», e già mi preparo a «Poptraekker Set» che arriva dopo.

Oggi mi faceva uno strano effetto guidare sulla sinistra senza essere preoccupata, senza aver paura.

Mentre guidavo pensavo a quanto strani sono i sogni che sto facendo in queste notti.
Non me ne ricordo neanche uno, ma tutti – ciascuno a modo suo – avevano qualcosa a che vedere con qualcuno che mi muoveva rimproveri e sollecitava i miei sensi di colpa, e con me agli inizi della mia vita professionale.

Ho sognato vecchi colleghi con cui non ero mai riuscita a trovare una sintonia, anche se eravamo tutti ragazzi e tutto sarebbe potuto essere più facile, se questo lavoro narciso che ti fa sentire in vetrina non avesse complicato la gestione di tutti i sentimenti.

Ho sognato una collega con cui dopo anni di difficoltà eravamo entrate in confidenza.
Le volevo bene.
Poi – puff – non so bene perché, forse perché nella vita succede così, non ci siamo più sentite. A nessuna delle due è più importato sapere come si sentiva l’altra, cosa stava facendo.

In macchina pensavo a quanto difficile è determinare la propria distanza dalle cose e dalle persone; a quanto difficile è perimetrare lo spazio intangibile nel quale nessuno ha accesso, anche.
È lontana, Verona, o è vicinissima?
Non so.
Non riesco a capirlo.

L’allontanamento fisico da un luogo costringe a una rifocalizzazione della prospettiva. È come se i tuoi occhi fossero contemporaneamente nel luogo che hai lasciato, e stessero guardando te che sei altrove, e nel luogo in cui ti trovi, e stessero guardando te che ancora li guardi da là, in un infinito gioco di rimandi nel quale – come fanno i pipistrelli – la distanza è misurata dai ritorni del segnale.

Il fatto è che il segnale è molto disturbato, perché è il cuore che non sa bene dov’è, e a quale distanza fra qui e là, o in quale altrove, si percepisce.
A volte emetto un segnale verso il passato che mi ritorna in un istante, in una frazione di secondo: sognando, magari; o percependomi fisicamente come quella venti-e-rottenne che girava per il tribunale di Verona alla ricerca di notizie di giudiziaria.

A volte, invece, il segnale fa una strada lunghissima, e io lo seguo, andando all’indietro nel tempo e nello spazio, e rivedo mio padre, cerco di capire e di sentire. Vedo mia madre, e cerco di ricordare quando ha cominciato a essere vecchia. Non anziana: vecchia. Non ha niente a che vedere con l’età, ma con il modo in cui si attraversa il mondo.

Ecco.
Oggi mi ero truccata così bene e adesso mi vengono gli occhi lucidi, scende una stronza di lacrima.
Non voglio che si rovini tutto. La giornata è praticamente finita, ma sentirmi truccata bene mi serve ancora.

Mi mancherà, questo altrove.
Sì.
Da qui «sento» le persone. So chi mi manca, sento chi mi pensa, percepisco chi mi vuole bene, capisco chi è del tutto disinteressato al mio cuore.
Vedo gli stronzi.
Vedo quelli che mi chiedono cose che non posso dare.
Capisco che ci sono persone che non mi potranno mai dare quel che mi sembrerebbe o mi sarebbe sembrato di volere da loro. Non è colpa loro: è la dotazione hardware e software.

So, da qui, che le persone a cui voglio bene lo sentono.
E vorrei che altri fossero più indulgenti, più materni (si potrà dire?) con me.
E vorrei che si capisse, una volta per tutte, che anch’io sono una bambina.