il «brand» generazionale?

Nel pezzo che sul Sole 24Ore ha dato pubblicità all’iniziativa Tq del 29 aprile, leggo che i promotori si dicono mossi dalla «volontà di superare la linea d’ombra che finora» li «ha protetti e uscire finalmente allo scoperto»; che «i tempi sono maturi per parlarne tutti insieme».

Io credo di avere qualcosa da dire. Da domandare, forse.

E mi va di cominciare così: io sono da questa parte qua.
Dice: quale parte, mia cara?
Da quella dei tq, per capirci.
Parlo – facciamo, per semplificare – da dentro (su, fate i bravi: non ditemi «ecchi tte vòle, a’ fata?»).

No, al seminarione Laterza non c’ero.
Ma se dovessi scegliere da che parte stare starei dalla parte di chi è andato al seminarione Laterza, e non dalla parte di chi, come Massimiliano Parente, scrive che Gilda Policastro gli ha procurato un’erezione, che Veronica Raimo è molto più bella del fratello, e che Giorgio Vasta è pallido e calvo come l’Osservatore di «Fringe» (e meno male che c’è Google images).

Non saprei se per questioni generazionali o no – ne dico dopo, e poi non ho idea se un ventisettenne o un quarantanovenne siano o no tq; non so se essere tq sia un sentimento o una condizione oggettiva, insomma – di certo non mi sento né di destra né anziana né fuori moda né appartenente all’universo di quei «nostri padri o fratelli maggiori» che «hanno più potere, ma valgono molto meno di noi» o a quella «generazione che si porta sulle spalle innumerevoli e conclamati fallimenti» di cui qui parla Nicola Lagioia.

Perciò sappiate, cari tq, che starò dalla vostra parte (quasi) qualunque cosa accada, ma non rinuncerò a dire alcune cose, da «amica», e non da «frazionista».

La primissima è questa.
Molti di voi scrivono per giornali importanti, lavorano per case editrici belle e importanti; alcuni vanno in tv.
Eppure, dite di «voler superare la linea d’ombra».
Cosa intendete, esattamente?
Parlate di visibilità?
Ne volete di più?

Se al di qua della linea d’ombra (sia pure a un insoddisfacente livello 1, poniamo), ci siete voi tq, in quale profonda oscurità si trovano quelli che non scrivono per giornali importanti, non lavorano per case editrici belle e importanti e non vanno in tv?

«Eh, ma quelli potrebbero benissimo non meritare altro che la più profonda delle oscurità», mi si potrebbe obiettare.
Sicuro.
Ma chi decide che qualcuno merita di superare la linea d’ombra e altri no?
E su quale parametro? Non su quello delle copie vendute o del «successo» personale, se Vasta si domanda qui «possiamo continuare a pensare che abbiano tutti torto perché non ci leggono?».

Un altro punto che mi ha mosso qualche riflessione riguarda il fatto che l’iniziativa – pur non aperta a tutti ed evidentemente destinata a un gruppo di invitati – sia stata pubblicizzata prima ancora di aver luogo.

La pubblicizzazione del seminario ha avuto il significato di avvertire i lettori del Sole 24Ore dell’esistenza di un gruppo chiuso di persone che da tempo riflettevano su alcune questioni?

Diversamente, se il gruppo già si considerava – con le virgolette o no – «comunità», io non mi spiego perché si giudicasse necessario pubblicizzare l’iniziativa prima ancora che il gruppo avesse raggiunto – faccio per dire – una «piattaforma» comune su cui chiedere eventuali adesioni a esemplari umani dei livelli 2, 3 e 4 trans-linea d’ombra, o magari anche dei livelli 0 o meno 1 del paesaggio cis-.

C’è anche quest’altra cosa. Se non ho capito male (e potrei), i tq pensano che abbia senso porsi il problema dello statuto «professionale» dell’intellettuale. Mi domandavo: ma esiste l’«intellettuale» o esistono le «professioni intellettuali»?
E quando si chiede «che lavoro fai?» a qualcuno che svolge una professione intellettuale, costui o costei rispondono più facilmente «sono un intellettuale» o «sono un insegnante», «sono uno scrittore», «sono un giornalista» (ammesso che il giornalismo sia una professione intellettuale)?
In altri termini, vista dall’altra parte: che lavoro fa un «intellettuale»?

In franco e aperto disaccordo sono, poi, su due questioni.
La prima è l’approccio generazionale; la seconda la ricerca di un «anno zero» al quale fare risalire una repentina virata dello spirito dei tempi, che si suppone aver informato di sé il profilo di un’intera «generazione».

Un cinquantenne operaio precario licenziato da un’azienda manifatturiera e un trentenne insegnante precario condividono le conseguenze della nichilizzazione del lavoro come grandezza politica oppure la generazione?
Ha senso – mi domando – pensare che il problema della crescente insignificanza dei diritti dei lavoratori sia periferico rispetto alla questione della generazione?

E ha senso – mi domando – identificare (lo fa Antonio Scurati qui) la prima guerra del Golfo come l’istante in cui, vedendo «cadere le bombe su Baghdad in televisione mentre» si sorseggiava «birra sul divano», un’intera «generazione ha assunto una postura spettatoriale che» le «impedisce di dare un’unghiata al mondo»?

Cosa significa?
Che la guerra è uno spettacolo solo perché non ne abbiamo esperienza diretta?
Che i racconti dei nonni non hanno avuto su di noi alcun impatto emotivo?
Che studiare la storia non è servito a niente?
Che l’attivismo politico o anche solo il ribellismo (posto che significhino qualcosa) non davano alcuna possibilità di «leggere» le guerre come eventi autentici e non spettacolari?

Io non so se, come dice Scurati, i giornali di carta stiano morendo.

So che non stanno affatto bene, e che la democrazia interna ai luoghi di lavoro – e non solo nei giornali – è gravemente malata.
Ma penso che fino a quando le forme della rappresentanza dei cittadini non avranno trovato un senso – ovvero fino a quando il problema che ci si pone non diventa politico (e non dico che sia una cosa facile; però bisogna ammettere che è tutt’un’altra prospettiva rispetto a quella assunta da tq) – qualunque desiderio di intervenire sulla realtà non potrà che tradursi in una questione intorno alla visibilità, in trasformazione di sé in simbolo; nella creazione di un «marchio».

(Questa cosa è uscita oggi anche qui).