l’altrove e la città di dentro

Ieri sono stata a fare una gita a Dublino.
Mi ci sento come dentro un vestito che mi sta bene.
E quando, dopo mezzanotte, sono rientrata in questa casa con la moquette pied-de-poule, le tende arancioni, le porte verniciate, le finestre a quadri, il giardino posteriore, lo Shannon a pochi metri, l’odore di mucca portato dal vento, la kettle sempre pronta, il caminetto, le scale, le stanze di sopra, il mio cuore mi ha detto «finalmente a casa».
Non so se mi piace.

È una specie di gioco da luna park: un piede ce l’hai su una piattaforma, un piede su un’altra; e le due piattaforme, che si muovono in continuazione, e in direzioni diverse, sono troppo piccole per farci stare tutt’e due i tuoi piedi.

Mio nonno è stato emigrante. In Argentina è andato a sedici anni, dopo la morte inattesa del padre. E poi si è sempre mosso. Ma è sempre tornato.
La famiglia di mia madre ha sempre avuto un piede qui e uno là, anche se ora le cose sono un po’ diverse. Mia cugina parte per New York fra poco più di un’ora.

Il «trottolismo» è una condizione interiore, mi sa. Nasce dall’insoddisfazione, dalla curiosità, dal bisogno metafisico dell’aria di un altrove, dalla necessità di mettersi alla prova e di vedersi in situazioni nuove.

Non c’è niente di più stimolante che avere a che fare con persone che della tua storia non possono sapere niente: tu sei quel che sei, sei quel che fai, sei quel che dici. Ti incontrano come un universo nuovo, e la differenza di cultura ti impedisce di ricorrere alla catalogazione anche inconsapevole delle persone e delle situazioni secondo i luoghi comuni del tuo immaginario.

La sensazione che ho, ora, è questa: che sto vivendo una specie di smottamento controllato. Tutti gli edifici della mia città interiore sono sollecitati. Ce n’è un buon numero che al test antisismico regge bene, curvandosi e piegandosi come occorre. Ma sento che qualcosa si crepa, si spezza, e non so se sono pronta a ramazzare piccole macerie.