in morte del giornalismo

antiquesSommario: come e qualmente, prima delle elezioni politiche del 2006, l’ufficio stampa del candidato presidente del Consiglio per il cosiddetto centrosinistra Romano Prodi mi chiese domande scritte e – avendole ricevute – mi disse che se, non le avessi ammorbidite, non avrei ottenuto alcuna risposta.

Da qui, da lontano, mai abbastanza e sempre troppo, voglio raccontare una cosa piccola che successe durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006, quelle in cui Prodi vinse per un soffio.

Mi ricordo quella nottata al giornale; la paura che l’incertezza del risultato potesse addirittura condurre a esiti imprevedibili lì per lì.

Mi ricordo la faccia di Fassino, di Prodi. Facce allucinate, preoccupate.
Bandiere gialle. Erano gialle o me le sto inventando?

Durante l’ultima fase della campagna elettorale mi capitò di avere l’opportunità di poter fare un’intervista a Prodi.

Non voglio nemmeno riferire – ma immagino che arriverà anche questo momento – quale fu l’atteggiamento con il quale il responsabile del giornale nel quale lavoravo accolse l’idea che una sua giornalista fosse riuscita ad ottenere la possibilità di intervistare uno dei due candidati (sfortunatamente, quello del cosiddetto centrosinistra), a pochi giorni dal voto.

Dirò solo che l’ufficio stampa di Prodi mi chiese di mandare domande scritte.

Ora.
Capisco che bisogna avere cautela.
Capisco che i tempi sono stretti.
Capisco che a un’intervista con domande scritte può rispondere lo staff dell’ufficio stampa senza far perdere tempo al candidato, che in quei giorni ha cose più importanti da fare che rispondere alle domande di un giornale locale della periferia (apparente) dell’impero (inesistente).

Però.
Un’intervista con domande scritte sta a un’intervista vera come un mazzo di fiori appassiti sta a un cespuglio di rose in un giardino.

Le domande scritte e le risposte scritte sono la negazione del discorso e del dialogo.
Non c’è nessuna risposta inattesa, o nessun tono speciale, nessuna esitazione, che – còlti nella voce dell’intervistato – possano far accendere nell’intervistatore la scintilla che conduce a una domanda imprevista.
E i bei colloqui, quelli veri, sono solamente quelli in cui due persone dialogano seguendo l’una il filo dell’altra, rispondendo ciascuna alle sollecitazioni che connessioni misteriose portano a galla.

I colloqui nel freezer del domanda scritta-risposta scritta sono surreali.
A volte succede che – tipo – tu chiedi «Ma lei cosa pensa del Tal dei Tali?», e l’altro ti risponda cose come «Tal dei Tali è un tizio con cui mi sono sempre trovato bene. È Caio Sempronio che per me è una persona difficile».

Se le domande sono scritte e già preparate, il lettore non troverà niente di simile a «E perché Caio Sempronio è una persona difficile?», ma – inevitabilmente – un interrogativo totalmente slegato dalla risposta ottenuta, e – nella migliore delle ipotesi – consequenziale alla domanda precedente.

Non solo: tu cerchi di fare domande brevi, perché sai due cose: che non devi mai parlare più a lungo dell’intervistato, e che le interviste lente, con domande e risposte lunghe, sono una delle cose più noiose al mondo; più di un Coelho.
E inevitabilmente il politico – il suo ufficio stampa – ti rispedisce risposte di una quarantina di righe.
Un comizietto che sei costretto a tagliare, ovviamente.

Comunque, va bene.
Cioè: non va bene, perché:
a) a rispondere non dovrebbe essere un ufficio stampa;
b) un candidato non dovrebbe temere le domande impreviste;
c) l’idea che si vede in controluce è questa: il giornalismo una specie di oggetto volante non identificato sul quale bisogna esercitare la massima vigilanza. Ai giornalisti bisogna dare i binari su cui sono autorizzati a muoversi.

Se anche ricorre una sola di queste condizioni, per me è già troppo.

C’è quest’idea per me inaccettabile – ed eravamo nel 2006 – che i giornalisti debbano soggiacere a un regime autorizzativo; che il potere o il would-be-potere abbia il compito di sovrintendere.

È più o meno quello che succede quando ti chiedono di rileggere l’intervista che hai fatto: mica è sufficiente, a coloro a cui hai parlato, il fatto che rispondi alle leggi civili e alle leggi penali. Che ti assumi la responsabilità.

No. Loro vogliono co-firmare il tuo pezzo. Siamo un’équipe, fratello nemico giornalista

C’è l’idea che chi controlla tempi, modi e contenuti è l’intervistato, e non l’intervistatore.
C’è l’idea che tu giornalista fai quello che serve a me, e non quello che serve a te per fare il tuo lavoro. Tu giornalista sei l’estensione del mio/di me ufficio stampa.

E passi quando quest’idea ce l’ha la politica di destra, o un’amministrazione comunale che in questo modo, attraverso il suo ufficio stampa, sindaco effettivo della città o del paese, controlla tutto il flusso informativo che passa attraverso un giornale locale.

Ma che lo faccia un politico di centrosinistra a me piace proprio pochissimo.

In ogni caso.
Mando le domande ingoiando il boccone amaro.
Uno potrebbe domandarsi: e perché? Potevi evitarlo!

Risposta: sì.
Potevo.
Ma a quel punto, il giornale aveva messo in moto un meccanismo tale per cui alla mia intervista si sarebbe dovuta affiancare – fatta da altri – un’intervista a Berlusconi, e l’ufficio stampa di Berlusconi era già stato parimenti preallertato.

Se avessi rinunciato all’intervista a Prodi, forse al giornale non ne avrebbero fatto una malattia, ma non so. Sarebbero potuti forse uscire solo con l’intervista a Berlusconi, al quale potevano liberamente ritenere non dovesse andare affiancata l’intervista della «controparte». Non ne ho idea, non lo so.
Nella vita ho imparato che le forzature sono sempre possibili, e incontrano sempre una resistenza inferiore a quella immaginata.

Bene.
Eravamo al punto che avevo mandato le domande.

Poco dopo mi arriva una telefonata dell’ufficio stampa.

«Le domande sono troppo cattive. Sembra che le abbia fatte un berlusconiano. Perché bisogna fare dire a Prodi se Berlusconi ha fatto qualcosa di buono? L’intervista dovrebbe servire a parlare del programma di Prodi!».

Una delle mie domande, in effetti, era più o meno questa: «Lei ritiene che Berlusconi, nei suoi anni di governo, non abbia fatto niente di positivo? Può dire almeno un paio di cose con cui concorda?».
E comunque ce n’erano anche altre che non erano piaciute.

L’ufficio stampa può smentire in qualunque momento, ovviamente.
Non ho nessuna registrazione di quella telefonata.
Ma le cose andarono veramente così: che mi chiesero di ammorbidire l’intervista, altrimenti il Professore non avrebbe dato risposte.
Se lo racconto oggi è solo per una cosa che ha postato su Facebook il mio amico Matteo Pascoletti, che mi ha fatto tornare in mente tutto.

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Ho già detto che non sapevo cosa sarebbe potuto succedere se avessi rinunciato a fare l’intervista.
Però a quel punto mi dispiaceva il fatto che Berlusconi avrebbe potuto avere un’intervista pubblicata solo e soltanto perché a me era venuto in mente di intervistare Prodi, e poi Prodi non avrebbe avuto spazio solo perché io tenevo duro su un principio.

A la guerre comme a la guerre (e che vadano al diavolo gli accenti giusti), mi dissi.
Non ne sono fiera.
Ma quando lavori in un giornale ci sei tu, ci sono il tuo dentro, il tuo fuori, il dentro del giornale e il fuori del giornale. A volte la complicazione della relazione fra queste parti ti spinge a fare cose di cui non sei fiero.

Ecco.
L’ufficio stampa del candidato presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra Romano Prodi voleva domande più morbide.
L’ufficio stampa del candidato presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra Romano Prodi voleva decidere quale fosse lo scopo della mia intervista.
L’ufficio stampa del candidato presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra Romano Prodi pensava che il giornalismo dovesse essere sussidiario alla sua campagna elettorale.
L’ufficio stampa del candidato presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra Romano Prodi pensava che le domande di un berlusconiano – io! – fossero politicamente, strategicamente e giornalisticamente inammissibili.

Credo che fu in quel momento che io compresi che tutto era moribondo, se non già morto.
Che il mio Paese era caduto giù.
Che – a parte la mia specifica situazione lavorativa, che già militava di suo verso un epilogo di questo genere – il mio lavoro non aveva alcun senso.

Che se la sinistra – oh, chiedo scusa: il «centrosinistra» – voleva tutto questo, be’, la mia sconfitta e la sconfitta del giornalismo erano pesanti, e irrecuperabili.