i borsoni, le bugie e l’ossessione del decoro

«È vietato il trasporto per le vie cittadine senza giustificato motivo di mercanzia in grandi sacchi di plastica, borsoni o in altri analoghi contenitori. Se il trasporto poi è accompagnato con la sosta prolungata nello stesso luogo o in aree vicine, questo è da considerarsi come atto finalizzato alla vendita».
L’ordinanza con cui il Comune di Venezia, retto da Massimo Cacciari e dalla sua giunta sedicente di centrosinistra punta a cacciare dal centro storico i venditori di merce contraffatta è veramente un segno dei tempi.

Ma io cittadino normale posso voler comperare una borsa o una cintura contraffatta, ben consapevole che non è stata fatta dallo stilista il cui logo è scritto sopra?
Dice: no, non puoi, perché è merce contraffatta.
Ma io lo so, obietto, che è contraffatta. E infatti una borsa finta di Prada costa venti euro, mentre una vera costa oltre venti volte tanto.
Lo stesso non puoi, mi dicono, perché la contraffazione è vietata.
E perché?, dico io. Ha senso che lo Stato difenda gli interessi di pochi produttori che fanno pagare la loro merce un occhio della testa contro gli interessi di molti venditori che commerciano in borse evidentemente non in concorrenza con i prodotti autentici, e contro l’interesse mio di pagare di meno, sapendo perfettamente che acquisto una borsa falsa?
Di quale interesse di carattere pubblico sono portatori Prada, Ferragamo, Gucci, Armani o Valentino? E questo senza nemmeno entrare nel noto argomento che spesso sono proprio gli stilisti di gran fama a dare i loro punzoni ai produttori, che vengono pagati così poco dalle case di moda da essere silenziosamente legittimati proprio dalle griffe a utilizzare i contrassegni su prodotti «paralleli».

Il comandante veneziano dei vigili dice che la stragrande maggioranza dei venditori ambulanti extracomunitari con permesso di soggiorno e licenza ambulante ha preferito seguire le indicazioni date dall’amministrazione, e allontanarsi dalle aree turistiche, e che c’è stato un esodo di massa verso zone periferiche della città, come i Giardini della Biennale.
Ah. I venditori di cui parliamo sono venditori con licenza!
Su quale presupposto, dunque, il Comune li caccia preventivamente, prima ancora di avere verificato quale merce portano nei borsoni? Troppo neri per il centro storico?

Qual è, dunque, l’interesse che lo Stato – l’amministrazione pubblica in generale – tutela, cacciando i venditori di merce contraffatta dal centro storico?
Qui le risposte son ridicole.
Tipo che facendo così si protegge il made in Italy (come se il made in Italy fosse più importante del mio diritto di consumatore – per chi crede nel mercato, e non sono sicura di essere fra questi – di pagare meno un prodotto), per esempio. O che quella è concorrenza sleale. Ma come «sleale»? C’è forse qualcuno che comprando a quindici euro una cintura Gucci sta pensando di aver comprato una cintura veramente Gucci? Sul banco del fruttivendolo, le pesche fanno concorrenza alle banane?
E non è forse vero che più una griffe è imitata più grande deve considerarsi il successo di quella casa di mode? Pensate alla frasetta che c’è sotto la testata della Settimana enigmistica: «Il settimanale che vanta più tentativi di imitazione»…

Sul piano inclinato dell’idiozia, poi, si slitta – come al solito – verso orizzonti falsamente tecnici. Tipo quello tratteggiato da Cacciari: l’uso dei grandi borsoni – dice – è un problema di ordine pubblico, perché essi vengono usati come mezzo per aprirsi la strada tra i turisti al momento dei controlli.
Di questo passo, suggerisco di tagliare le braccia degli stranieri che vendono, perché anch’esse sono un problema di ordine pubblico quando un venditore fugge e si fa largo tra la folla agitando gli arti superiori. Oppure, se il bene supremo da tutelare è l’incolumità dei turisti, suggerisco di smettere semplicemente di fare i controlli che originano la necessità di fuga dei venditori.

E poi. Dal punto di vista della civiltà giuridica vietare l’uso di borsoni – divieto sanzionato con il sequestro della merce e una multa di cinquemila euro – è veramente delirante.
Con quella borsa – si sostiene – io ragionevolmente suppongo che tu commetterai un illecito.
Il divieto, dunque, si sposta sempre più a monte.
Non sono io Stato a dover dimostrare che tu hai già commesso un illecito, ma tu cittadino a dovermi dimostrare che non l’hai commesso, o – peggio – che non stai per commetterlo. Quei borsoni ti mettono in condizione di vendere merce contraffatta, ergo non puoi usarli. E questo, ancora prima che io Stato mi sia preso la briga di verificare che quella merce è contraffatta.

Come se io dicessi: quella Ferrari ti mette in condizione di fare i trecento all’ora, dunque non puoi usarla e te la sequestro.
E tutto questo per la loro idea del decoro delle città.
Per la loro ossessione di fare delle città luoghi levigati in cui occorre selezionare le forme di vita e le manifestazioni estetiche ammissibili.
Niente torso nudo, niente gonne troppo corte, niente borsoni, niente panini che fanno briciole per strada, niente schiamazzi.
Non avrai altro dio fuori di me-che-sono-in-regola-e-fisso-le-regole.

Questa deriva mi spaventa.

p.s. Ah. L’Ansa, dando la notizia, chiama i venditori «vù cumprà».