bossino, due sinistre e una strana guzzanti

Tre notizie in fila.

Uno. Titolo: «Varese ladrona».
Renzo Bossi è stato bocciato per la terza volta alla maturità.
Il ministero, che con un atto di fiducia nei confronti delle sue auguste ragioni, gli aveva consentito di ripetere (a Tradate) l’esame al di fuori delle sessioni normali, dovrebbe adesso aver finalmente avuto la prova del fatto che le due precedenti bocciature avevano un loro perché, e non derivavano dal fatto che gli insegnanti del sud massacrano gli studenti del nord, come ha avuto l’arroganza di sostenere il padre del ragazzo tri-bocciato.

Update quasi notturno.
Bossi dice che il figlio può non aver passato l’esame anche perché i professori erano gli stessi dell’altra volta (ma dimentica di dire che il ministero dell’amica Gelmini aveva mandato a presenziare all’esame un suo ispettore), che lui aveva sconsigliato Renzo dal presentarsi ma il ragazzo era stato «anche bravo» e aveva voluto andarci ugualmente, e soprattutto che «fino a quando ogni regione non avrà i suoi professori queste cose potranno sempre succedere». Quali cose, di grazia?

Due. Titolo: «Mi vergogno di questa sinistra (e ovviamente pure della destra, ma almeno non c’entro)».
La Cassazione ha stabilito che una donna rom che portava con sé i figli a mendicare dev’essere processata nuovamente, e non per riduzione in schiavitù dei figli (reato per cui era stata condannata in appello) ma per maltrattamenti in famiglia (reato del quale in appello non era stata invece ritenuta responsabile).

La Cassazione sostiene che non è schiavitù ciò di cui si tratta, perché in primo luogo la donna mendicava effettivamente per povertà, e non per professione (se così si può dire, e io non credo); poi perché mendicava poche ore al giorno, e quindi mancava un ulteriore presupposto necessario a parlare di schiavitù (non si può essere schiavi a ore, insomma, ma se lo si è lo si è 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno); poi perché mendicare fa parte della tradizione del popolo a cui quella donna e quei bambini appartengono.

I giudici di legittimità hanno detto che dovrà essere ri-celebrato il processo d’appello rubricando il reato per il quale si procede come «maltrattamenti in famiglia» e niente più; e non hanno assolutamente detto, come sembrano credere i miei colleghi che su vari organi di stampa hanno riferito la notizia, che la donna dovrà andare necessariamente condannata e che «la pena sarà inferiore».
D’altra parte, se la legge desse alla Cassazione l’autorità di stabilire che un imputato debba andare condannato, il giudizio sarebbe di merito – cioè uguale a quello dei primi due gradi di giudizio – e non, appunto, di legittimità.

Sia come sia, passi che la destra faccia fuoco e fiamme. Ma che due tipe di sinistra – no: che si definiscono di sinistra – commentino quello che hanno commentato Livia Turco e Anna Serafini, beh, questo per me è inquietante.
Dice la Turco che «questo è veramente un caso di relativismo etico».
Brava.
I miei complimenti.
Sì, lo è.
È esattamente un caso di relativismo etico.
Può essere, per fare un esempio, che un giudice rom condannerebbe per maltrattamenti in famiglia una coppia di rispettabilissimi e regolari genitori veneti, lombardi o laziali che portano i loro bambini di sabato pomeriggio al centro commerciale, all’outlet, al villaggio dello shopping.
D’altra parte, ora che ci penso, forse forse una condanna la pronuncerei anch’io.

Dice la Serafini: «C’è un interesse superiore del bambino che non possiamo dimenticare. È il suo diritto a non vedersi privato dell’infanzia e sottratto alla scuola».
Cara Serafini.
Punto primo: in questo Paese, per un bambino di quattro anni (tanti ne aveva il figlio che si ipotizzava ridotto in schiavitù) non esiste alcun obbligo scolastico.
Punto secondo: un bambino rom considera – credo – perfettamente normale che tra i diritti della sua infanzia sia compresa la possibilità di stare insieme alla madre quando lei va a mendicare.
Volere che tutti siano uguali, cara Serafini e cara Turco che sareste tanto contente se questo bambino venisse allontanato dalla madre e portato in uno di quei fantastici istituti sapendolo nel quale la vostra per me incomprensibile coscienza civica si sentirebbe tanto rassicurata, è il primo passo per diventare tutti un po’ nazisti.

Tre. Titolo: «Che idea di democrazia è questa?».
Il Comune di Udine ha chiesto e ottenuto dall’università di Udine l’uso dell’aula magna per un’iniziativa nella quale è stata invitata a parlare Sabina Guzzanti.
Uno dei docenti di quella facoltà pretendeva che l’incontro non si svolgesse lì, e ha chiesto al rettore una lettera di scuse per avere con quell’iniziativa profanato la sacrale neutralità di quell’ateneo.

Fino a qui, sembrerebbe abbastanza chiaro da che parte è ragionevole stare.
Bene.
Il giorno dell’iniziativa, il professore si presenta in aula magna, e – c’è un video, nel quale le parole si capiscono poco ma i gesti si interpretano bene, e anche qualche insulto risulta molto chiaro – la Guzzanti gli impedisce di parlare tenendo per sé il microfono (e fin qui vabbè), lo tratta con sufficienza (e fin qui vabbè), poi dice sdegnata che «nelle università può insegnare perfino gente come questo qua», poi l’accusa di non avere idea della democrazia, perché vuole impedire alla gente – a lei – di parlare.

Bene.
A me sembra che ad avere un’idea un po’ così – formalista, direi – di democrazia sia in questa circostanza più lei che lui.
Quante volte, in omaggio a un principio sostanzialista, la gente – diciamo così – di sinistra, ha infranto regole formali come quelle dell’attendere di essere invitati a parlare prima di farlo?
Quante volte?
E perché adesso a questo professore bisogna opporre un diniego formale?
Capisco che quella del professore era certamente una provocazione.
Capisco che era pure fastidiosa.
E capisco pure che era illegittima (a tal punto che l’ateneo sta valutando sanzioni contro di lui).
Però se l’onta di lasciarlo parlare era così intollerabile – e può darsi che lo fosse, per carità – perché non hanno chiamato i carabinieri, visto che ciò di cui lo si accusava era un comportamento formalmente scorretto?
Perché, invece, hanno fatto portare via a braccia quell’uomo da persone che non erano in divisa?
Se vogliamo metterla sul piano formale, chi dava a quelle persone il diritto di portare via qualcuno?

Update notturno.
Leggo qui che chi ha portato fuori dall’aula magna il professor Strassoldo era la Digos.
Nel video che ho visto io (quello da oltre nove minuti) non avevo notato divise, ma si sa che gli agenti della Digos svolgono assai più liberamente i loro compiti in borghese…
Se i tipi che per un sacco di tempo hanno parlato con Strassoldo cercando di tenerlo a bada e poi l’hanno portato fuori dall’aula erano della Digos, cade tutto l’ultimo pezzo del mio argomento.
Rimane in piedi, però, che la Guzzanti ha parlato di lui come dell’«esibizionista», del «comico qui dietro»; ha detto che la riforma del governo vuole costruire «un’università che non vale nulla, in cui può insegnare anche uno così. Che fa questo qua? Insegna?».
Dopodiché, resta ovvio adesso come prima che non ho il fisico per simpatizzare minimamente per un uomo che pensa che l’università sia (o – peggio – debba essere) un posto «neutrale», pretende che il rettore l’avverta per il fatto di aver reso disponibile l’aula magna a un’iniziativa che a lui non piace, e invece di levarsi dai piedi motu proprio continua a rimanere dove sta anche quand’è chiaro che farebbe meglio ad andarsene.