eluana, una lunga digressione su di me

la_mia_vitaC’è qualcosa di osceno, di tracotante, di estremamente violento, di integralista, di cieco, cupo, autolesionista in quelle persone di cui parla questo pezzo del Corriere.it.

Sono genitori che hanno portato in piazza i loro figli handicappati, o «malati», per dire al padre e alla madre di Eluana che sono due assassini, e per dirlo scagliando loro addosso con tutta la violenza dell’integralismo sordo e cieco alle ragioni di chiunque altro il peso, il peso fisico, dei loro figli branditi come arma di distruzione di massa.
Anzi: come bombe al fosforo bianco, perché continuano a bruciare anche dopo.

Ma quei genitori del pezzo del Corriere sono fenomenali.
Eroi.
Eppure.
Nessuno può desiderare per sé, pensandoci da piccolo, per esempio, che da grande vuole avere – oh, quanto vuole avere – un figlio handicappato che non potrà mai badare a se stesso e avrà sempre bisogno degli altri.

Per quel che io ne ho sperimentato personalmente, da sorella (e non ho la pretesa di esaurire nella mia esperienza tutte le infinite possibilità di reazione), queste son cose che si possono al massimo tentare di accettare – e solo ristrutturando completamente la propria vita, integrandole all’interno della propria miscela esistenziale con grande creatività, grande sforzo, grande rabbia; ma la partita non si chiude mai.
Né quella con la sofferenza, né quella, per esempio, con l’inspiegabile e irragionevole senso di colpa per essere tu «sano» e tuo fratello o tua sorella o tuo figlio handicappato.

Son cose con cui si convive; sono cose che informano di sé l’identità di chi le vive, così come tutte le esperienze forti che chiamano a raccolta tutte le risorse di un piccolo essere umano – un fratello o una sorella «sani» – e dei due grandi esseri umani che sono i genitori.

Da questa mobilitazione delle risorse sentimentali, emotive, intellettuali, gastrointestinali (mi viene da dire), animali, e anche fisiche (perché c’è bisogno di un’enorme resistenza fisica per poter passare notti e notti in bianco senza sapere cosa sarà di tutti, per sopportare giorni e notti e settimane e mesi di angoscia per la sopravvivenza di un figlio o di un fratello o di una sorella che attraversa il mondo con il timbro dello sfigato, del fuori-norma) si emerge diversi, e a volte in modo miracolosamente diverso, senza che a questo avverbio io annetta significati sovrannaturali.

Ma queste sono esperienze che si possono – appunto – al massimo accettare, e nemmeno una volta per tutte, perchè il percorso del «perché a me?» non è mai veramente ultimato; perché la quantità di dolori minuscoli e accessori che la presenza di un handicappato introduce nella tua vita di familiare è così mostruosamente ingente che la tua resistenza muscolare finisce per esserne drammaticamente fiaccata.

Non so chi abbia visto il film di Ken Loach «Ladybird Labybird».
Non c’entra con l’handicap, d’accordo: ma spiega benissimo, con chiarezza lancinante, quale sia e quanto male faccia – un male straziante, che auguro a tutti coloro che l’hanno fatto a me, ai miei genitori e a mio fratello – il differenziale di potere che massacra la vita di chi subisce l’incontro con ciò che burlescamente sento chiamare «servizi sociali».
E mi perdonino quelle fra le mie amiche che fanno le assistenti sociali.

Io ero bambina quando vivevo tutte le cose che la presenza di questo stranissimo ufo che era mio fratello faceva vivere ai miei genitori.
Ma so che se io sono quel che sono – comunque io sia – lo sono per quelle esperienze là.
Raccontavo una cosa l’altro giorno a mio figlio in macchina, tornando dalla spesa, senza rendermi conto – sulle prime – del fatto che gli stavo raccontando una cosa molto dolorosa. Poi, quando me ne sono accorta era troppo tardi per la virata (ma lui, come al solito, mi ha stupita, il mio fiorellino stronzetto).
Quand’ero piccola – gli ho raccontato – in inverno e in estate io dormivo con la coperta o le lenzuola costantemente alzate sopra la testa, perché pensavo che questo mi proteggesse dalla possibilità che mio fratello morisse.

Lo so che era una scemenza, ho detto a mio figlio, ma era così.
E lui, che è bambino com’ero bambina io quando facevo quelle cose delle coperte, m’ha detto «no, invece io lo capisco, non è una scemenza».

Un figlio o un fratello o una sorella handicappata non lo puoi desiderare, credo.
Se lo desideri, credo che ci sia in quella voluptas dolendi, in quel bisogno di ledere te stesso, qualcosa che non va. Come se non riuscissi a dare a te stesso il diritto di vivere semplicemente per il fatto che vivi ed esisti, ma avessi bisogno di meritarti la vita con qualche cilicio aggiuntivo.

Nel pezzo del Corriere parla un uomo, un padre: «La croce c’è», dice. «È pesante, ci ha fatto piangere. Ma noi, questa croce che ci è toccata in sorte, la amiamo profondamente. La decisione del padre di Eluana svilisce le nostre scelte. È come se ci dicesse che il nostro lavoro quotidiano è inutile, che tanto c’è una soluzione più semplice: staccare la spina».

Io vorrei riuscire a rispettare fino in fondo questa persona che parla, ma non ci riesco.
Perché sta dicendo molte cose terribili, la più terribile delle quali è che il padre di Eluana svilisce le sue scelte.
Come se il compito di Beppino, della moglie e di Eluana, e il compito di tutti noi che siamo qui sulla terra fosse quello di dare un senso alle scelte di quest’uomo che dice di amare la sua croce.

Come se il mondo dovesse formare una corolla di petali intorno a lui e alla sua meravigliosa capacità di sopportare la sua amata croce.
Come se sentimenti diversi fossero inammissibili perché «sviliscono» i suoi.

Quant’è grande il bisogno di approvazione di una persona che parla cosi?
Che dice che Englaro «è come se ci dicesse che il nostro lavoro quotidiano è inutile, che tanto c’è una soluzione più semplice: staccare la spina».

Solo una persona con cui io non vorrei avere a che fare – e mi scuso, mi scuso veramente per la radicalità delle cose che dico, ma sento di non avere alternativa – può pensare che «staccare la spina» sia «la soluzione più semplice».

È un dolore enorme misurare lo sfruttamento ipocrita, misero e ideologico che delle vite più difficili fanno le persone di chiesa.
Se dio c’è, non è certamente con chi fa alzare dal letto intere famiglie alle quattro di mattina per andare a far vedere a Beppino Englaro che un altro mondo è possibile.
Lasciate Eluana alle suore, gli hanno detto.
Eh già.
Lasciagliela, no?
Lasciagliela, Beppino, e tu vai nelle balere dove vorresti andare.
Tanto, il problema è questo, no?

C’è una parola che da mesi mi rimane in gola. Mi vergogno un po’ a pronunciarla, ma forse non così tanto da non riuscire a scriverla.
La parola è schifo.
Mi fanno schifo.