appunti da un’altra lingua

Era seduta di fronte a me sulla Luas. Alta, sottile, caschetto biondo paglia con riga in mezzo, impermeabile verde, ballerine di vernice senza scarpe, occhiali di Donna Karan, sacchettini di Brown Thomas. Vecchia.
Quando ha chiuso l’ombrellino, ognuna delle pieghe si è accavallata sull’altra con una perfezione automatica e naturale. Lei non ha fatto niente di speciale; ha solo tirato il cordino per chiudere la corolla.

Mi domando perché quando li chiudo io, i miei ombrellini pieghevoli sembrano stracci indomiti e spiegazzati.
La domanda non è priva di senso: se perfino qui, in Irlanda, dove gli italiani sono circondati dall’aura miracolosa di quest’ingombrante fama di eleganza naturale, io riesco a sembrare meno posh di una vecchia irlandese, qualcosa di strano secondo me ci dev’essere.

La seconda giornata del seminario con Catherine Dunne è stata molto soddisfacente e piena. Temo che il mio giudizio sia influenzato dal fatto che a lei è piaciuto quel che sto scrivendo, e perfino la traduzione inglese che ne ho fatto (e più ci penso, più mi sembra incredibile), e dal tè che abbiamo preso al Gresham hotel (veramente lei ha preso vino bianco).
Però io non riesco a non pensare che questa donna i cui libri son stati tradotti in molti Paesi del mondo ha incontrato altre sette donne presentando se stessa con semplicità e calore, dando suggerimenti estremamente pratici e puntuali senza somigliare affatto a uno di quei manualetti del tipo «do it yourself» o – come vidi una volta in libreria – «Sarò presto tornitore» (che gioia, che aspettativa).

E delle sette donne, nessuna sembrava minimamente impressionata dal fatto di avere davanti una come lei, che non è una Pippa Pippi qualunque.

Comunque, credo che l’insistenza sulla storia sia estremamente indicativa. La prima domanda è stata qual è la storia che vuoi raccontare.
Non «chi sei», «cosa fai», «parlami di te», «perché sei qui», «cosa ti aspetti da queste dieci ore».
No.
La domanda è «cosa vuoi raccontare, qual è la storia che bussa per uscire da te».

Mi piace.
Tra le sette, c’era una ragazza americana che è qui a Dublino da un anno e mezzo. Dopo aver fatto parte della campagna elettorale di Barack Obama non se l’è sentita di piatire un impiego governativo a Washington D.C. ed è venuta qui a lavorare con gli homeless.
Un’altra ha la madre spagnola e il padre di Cork, ma entrambi i genitori per ora sono nel Bahrein e lei sta qui, progettando di andare per un paio d’anni in Australia e di scrivere un libro sul paese basco durante il franchismo.

Un’altra ragazza, Sarah, sta scrivendo su Germania est e Germania ovest, la storia di due ragazzi, delle intercettazioni che venivano fatte nelle case dell’est.

Non so. C’è sempre qualcosa che, anche nei peggiori dei miei soggiorni dublinesi, si incarica di ricordarmi che nella mia vita c’è un altrove, c’è un cortiletto che ha senso per me. Che c’è dell’aria da far respirare al mio cervello, che l’atrofia neuronale a cui esso sembra professionalmente condannato non è un destino necessario.

In questi dieci giorni ho sofferto di malinconia, e la mia testa ha continuato a girare tremendamente. Il tempo è stato mediamente orrendo. Ho visto negli occhi della gente che mi guardava la consapevolezza che stavano guardando una donna, e non una ragazza. L’ho realizzato profondamente per la prima volta, e questo – mi rendo ben conto – non mi fa granché onore.
Però attesta un’asincronia fra dentro e fuori che non è del tutto nociva né in se stessa improduttiva.
Penso di doverci lasciare lavorare un po’ la pancia.

In ogni caso, quel che volevo dire è che anche dieci giorni a modo loro difficili sono riusciti a restituirmi a me stessa; mi hanno dato il senso di una direzione, e va benissimo che sia la direzione di una donna e non quella di una ragazza.
Dieci giorni a modo loro molto difficili mi hanno svitato dall’avvilente miseria delle mie relazioni professionali.
Faccio un lavoro che dovrebbe attivare il mio cervello, e invece tutto quel che sembrerebbe realmente fondamentale per una ragionevole sopravvivenza non troppo conflittuale della sua detentrice è il suo disinnesco, la sua collocazione in una custodia riparata dalla luce e dai rumori, e non si sa mai che un giorno – chissà – possa tornar buono, o essere venduto come nuovo.

Ma al mondo c’è anche Catherine Dunne, e c’è la ragazza di Obama, e c’è Sarah.
E, quel che più conta, ci sono io che vado a prendermele; ad ascoltarle, a parlare con loro. A farmi venire mal di testa per capirle, ad affrontare il terrore di volare. A cercarmi e a trovarmi mentre faccio uscire da me ciò che solo una lingua straniera, con una sua grammatica, un suo registro, una sua struttura, sa trovarmi dentro.