paola/2, o della bufala meritocratica

Ho da dire ancora, ho da dire altre cose, su questa storia di Paola che non è stata assunta dal Corriere della Sera dopo sette anni di contratti, perché le è stato preferito – dice lei – un «pivello» (vedi post precedente, che forse andrebbe effettivamente letto prima di questo).

Mi rendo conto di una cosa: che, semplificando, s’è creata una sorta di bipartizione.
Tu solidarizzi con Paola, tu non solidarizzi con Paola.

Di qua i sostenitori fiduciosi della variante appellistico-solidale della democrazia della paletta, quelli che poffarre, Paola sta facendo lo sciopero della fame e tutto questo è molto toccante, noi dobbiamo fare qualcosa, ed ecco la nostra solidarietà.
Di là, quelli che i giornali non sono ministeri e il posto fisso non è un diritto, e che cazzo vuoi se non hanno preso te.


Ora.
Giusto. Lo scrivevo anche nel post precedente a questo.
Nei giornali non si entra per graduatoria. Non si entra – con una definizione estremamente efficace di Matteo Bordone – a causa dell’accumulazione di un «monte-sfiga spendibile con l’ufficio del personale».

Però – sarò sincera – non mi piace neanche quest’esaltazione virile delle virtù autoregolatrici del mercato, con l’inevitabile corollario dell’affermazione che il principio per il quale Paola si sarebbe aspettata di essere assunta è nemico di qualsiasi principio meritocratico.
Come se – ancora una volta – la selezione di una persona per una posizione professionale potesse essere definita meritocratica solo perché la decide un direttore, per esempio.
Lo so, lo so: tranquilli.
So bene che anche se il direttore assume un cane, resta il fatto che l’unico titolato a decidere è lui.
Lo so alla perfezione; tanto che l’ho pure scritto nel post precedente a questo.

Ma a chi e a che cosa sia funzionale il «merito» che l’unica persona titolata a decidere chi debba andare assunto – il direttore – intende riconoscere con un’assunzione nessuno lo tiene in conto.
Intendo dire che se un giornale deve diventare allineato e collaterale a un qualunque potere (locale o nazionale), ad essere assunto sarà più probabilmente uno che è sintonizzato su una lunghezza d’onda compatibile con quella di quel potere.

Questa, miei cari profeti del mercato giornalistico, è l’unica meritocrazia possibile in quel particolare segmento di universo che si chiama giornale.
Nel giornale si controlla la gente; si controllano i pensieri della gente e si controllano i voti.
Nessun giornale, singolarmente preso, lo fa.
Ma tutti insieme, e in un arco di tempo ragionevolmente lungo, i giornali raccolgono lo spirito del tempo e lo convogliano verso nuovi sbocchi; gli creano un senso.

Non voglio dire che non si assumano mai persone tecnicamente capaci di svolgere il proprio lavoro.
Sostengo solo che è possibile che esse non siano assunte perché tecnicamente capaci, ma magari perché qualcuno s’era distratto; o perché senza un certo numero di persone tecnicamente capaci le cose non stanno in piedi.
E perfino la nostra Costituzione sa che «capace» e «meritevole» non sono sinonimi intercambiabili, tant’è vero che usa entrambi i vocaboli, evidentemente a significare sensi differenti.

Giusto che Bordone scriva che se Paola sarà assunta, beh, sarà a questo punto assunta non per merito ma per sciopero della fame, il che è effettivamente una causale alquanto singolare.
Ma vorrei che fosse chiaro che la definizione di «merito» è sempre, per forza, contingente, contestuale, e ideologicamente contrassegnata.
Soprattutto quando si tratta dei giornali.

E che nessuno mi dica che il giornale ha l’obiettivo di vendere, di far profitti.
Eventualmente, ha anche quest’obiettivo.
Ma il suo obiettivo primario è il controllo del territorio, come i predatori.

Prima di essere assunta dall’editore che pubblica il giornale in cui lavoro adesso, avevo lavorato in molti giornali, spostandomi di qua e di là.
Dalla chiusura del giornale che mi aveva fatta praticante, non m’ero mai rivolta alla testata nella quale lavoro ora.
In parte perché per me rimaneva «la concorrenza»; in parte preponderante perché avevo voglia di vedere cosa c’era in giro.
Avevo voglia di mettermi alla prova.

Ogni volta ricominciavo daccapo.
Piacere, Federica. Sì, ho lavorato qui e ho lavorato là. Ho fatto cronaca politica, giudiziaria, nera, sport. Sì, sono stata anche responsabile di settore. Sì, scusate: dov’è il Comune? Chi è il procuratore? Mi date la composizione della giunta, per favore? I numeri del giro di nera a chi posso chiederli? Quando sono state le ultime amministrative? Avete un elenco delle associazioni non profit? Chi sono i referenti dei sindacati? Le categorie? Gli industriali? Come funziona il sistema editoriale? Quanti sono i fotografi? E i collaboratori?

Ogni volta daccapo, a ricostruire millimetro per millimetro le complesse topografie del potere interno al giornale; a rubricare tipologie di colleghi catalogati in ordine di pericolosità.
A capire chi faceva cosa a chi, chi voleva usarti per fare cosa a chi, quali erano le armi che ogni nuovo contesto riteneva accettabile usasse un nuovo arrivato come me: il silenzio? Le rivendicazioni? La fermezza? E ogni volta, la decisione su quali di queste armi erano quelle che mi sembrava meglio difendessero la mia dignità.

Mi sono licenziata da posti che non mi convincevano, perfino da contratti a termine.
Ho conosciuto giunte di destra e di sinistra, pm che parlavano (pochissimi, e per pura vanità; dunque erano proprio quelli che avevano le notizie più sceme) e pm che tacevano.
Avvocati vanesi che se arrestavano un loro cliente avvertivano la stampa per vedere il loro nome sul giornale, ecchissenefrega se il loro assistito finiva in un macello.

Ho conosciuto gente distrutta che si rivolgeva a te per chiedere aiuto, e bastardi che pensavano di fregarti dandoti notizie la cui diffusione serviva solo a loro.
Gente che ti chiedeva di tenere nascoste le notizie.
Colleghi che tenevano nei loro cassetti notizie enormi perché potevano far male a qualcuno. Chiuse per anni, quelle notizie, dentro quei cassetti. Non si sa quante volte la minaccia di diffonderle sia tornata buona a qualche scopo che provvisoriamente fingerò di non riuscire a immaginare.

Quando sono arrivata nel giornale in cui lavoro adesso sapevo fare desk, disegnare pagine in tutti i principali sistemi editoriali usati in Italia, trovare notizie in ambiente sconosciuto e ostile, verificarle coprendo le mie tracce, coordinare gruppi di lavoro, inventarmi notizie dal niente quando le pagine rischiavano di rimanere vuote, insegnare ai miei colleghi che cominciavano allora quel poco che avevo imparato grazie ad alcun bravi maestri (altri non erano stati bravi per niente), riconoscere le buone doti tecniche e professionali di un collega la cui assunzione dovevo consigliare in ragione della posizione che occupavo.

Sapevo andare a casa delle madri e dei padri che avevano perso un figlio e fare domande che avevano molto più senso di «come si sente?».
Ci stavo male, ma se mi mandavano affanculo sapevo che una parte del mio stipendio mi veniva dato per riparazione a quel vaffanculo.
Che senso ha, mi domandavo, fare pezzi su queste cose?
E mi rispondevo che una città vuol sapere anche queste cose.
Sbaglia?
Va bene, sbaglia. Ma io sono pagata per trovare le domande giuste, e le parole giuste, e il modo giusto per rispettare le storie di coloro di cui parlo. Quello è compito mio.

Avevo imparato, mi avevano insegnato, a fare le domande come mezzo per cercare le risposte.
E avevo imparato che non tutte le risposte erano da scrivere. Non per motivi censorii, ma perché se tu vuoi che una persona ti dica qualcosa devi ascoltarla anche quando dice cose che non c’entrano un accidenti con la notizia di cui stai occupandoti. Perché prima di tutto viene la relazione umana, un legame fra simili che non puoi tradire maltrattando con aggettivazioni allusive o pesanti, con l’attribuzione di pensieri, con descrizioni immaginifiche.

Sapevo trattare con i politici, con il loro ego, con i loro uffici stampa, con i difficilissimi esponenti delle burocrazie amministrative.
Sapevo tenere le distanze.

Quando sono arrivata al giornale dove lavoro ora, insomma, sapevo fare parecchie cose, e avevo un curriculum lungo.
Avevo scelto di non fare la coda al giornale.
Pensavo che imparare cose fosse più importante.
E quando andavo chiedendo lavoro non dicevo «assumete me, per favore: ho un fratello handicappato, mia madre non è un fiore, ho avuto un’infanzia pesante e sono orfana di padre».
Dicevo: questo è il mio curriculum, questo è quello che so fare.
Se vi interessa, sono qui.

Una volta, il segretario di redazione di un giornale che mi aveva chiamato per una sostituzione estiva rispose alla domanda con cui gli chiedevo perché il contratto avesse una durata così breve sostenendo che lui aveva il compito di «accontentarci» tutti, noi questuanti.
Gli dissi che io non ero una persona da accontentare, ma una lavoratrice che veniva pagata per un lavoro che faceva.
Se all’azienda andava bene come lavoravo, che mi chiamasse.
Se non le piacevo, che evitasse di propormi contratti.
Via di mezzo non c’era. Non potevo essere brava ma disposta a far spazio a quelli meno bravi da accontentare, o poco brava e premiata per essere semplicemente senza lavoro.

Quando mi hanno assunta a tempo indeterminato – e qui torno a Paola – ne avevo dunque passate un po’, avevo maturato competenze primarie ma anche accessorie.
Eppure, molti colleghi di quelli che erano rimasti per anni a collaborare con la testata che mi stava assumendo senza avere io fatto la coda si irritarono e considerarono ingiusta la mia assunzione.

Fui oggetto di commenti piuttosto pesanti. Fui considerata un’usurpatrice.
Paola stessa, probabilmente, avrebbe potuto dire – ma la mia (attenzione) è solo un’illazione – che ero una «pivella».

Poi, quando venni promossa – prima donna in 140 anni di storia di quel giornale a ricevere un grado – mi accadde di sentirmi dire che era normale che i colleghi mi detestassero, perché io ero stata promossa e loro no.
Psicoanaliticamente non fa una grinza.
A parlare, però, non era il mio analista, ma un mio superiore.
Uno che in teoria avrebbe dovuto tutelarmi.

Adesso mi faccio una domanda, però: se, per pura ipotesi di scuola, a quel tempo ci fosse stata una giunta comunale che considerava quel giornale come il suo house-organ, il suo zerbino maculato su cui, stofinando le scarpe, scaricare e mimetizzare l’ipotetica merda che si fosse intrufolata nelle asperità delle suole, chi meritava di più?
Io che avevo fatto tutte quelle cose, o uno che s’era messo pazientemente in coda e magari, grazie al benevolo interessamento di un politico qualunque, garantiva imperitura gratitudine alla Causa e ai suoi rappresentanti?

Lo so che sono stata lunghetta.
Però, per spiegare che questa cosa della meritocrazia è contestuale e contingente dovevo portare un esempio che conosco bene.

Ora.
Paola.
Eravamo rimasti alla divisione fra supporter facebookiani-twitteriani-blogghiani della democrazia diretta «petizionaria»; e sani aziendalisti tutti d’un pezzo, sostenitori del sacro e inequivoco principio della meritocrazia.

Non sembra abbastanza chiaro che in mezzo c’è un sacco di roba che questa semplificazione ignora?
Non sembra evidente che se non ci piace il modo attraverso il quale abitualmente si accede nei giornali – la «coda» – dovremmo evitare di scagliarci contro i «pivelli» che non sanno fare un accidente e ci stanno rubando il posto?
E – sull’altro versante – non sembra sensato che invece di gridare all’assassinio della «meritocrazia» causa scellerata idolatria del posto fisso, si ragioni sul senso del merito (quantomeno) nel giornalismo?

Sallusti – faccio per dire – merita o no? Non è forse l’uomo giusto al posto giusto?
Non dovremmo tenere in considerazione l’argomento che a uno chiunque di noi, o anche alla maggioranza di noi, Sallusti sembri non «meritevole»: perché chi stabilisce – secondo le proprie convenienze – le funzioni di Sallusti lo giudica legittimamente «meritevole».

Il merito non è la stessa cosa per tutti, a tutte le latitudini, in tutte le situazioni, e qualunque sia l’obiettivo di un’azione.
Qui, per la miseria, sembra che ci sia un sacco di gente che ha un’idea precisa e matematicamente ineccepibile del «merito»: penso alle persone della Rena, la Rete per l’eccellenza nazionale, ma anche ai portabandiera di quella retorica giovanilistico-meritocratica che vorrebbero il rinnovamento perché i vecchi c’han portato alla rovina.

Penso a coloro che fanno, per esempio, dell’audience la misura del merito, e poi s’incazzano come animali quando Berlusconi vince le elezioni.

A quelli, insomma, per i quali la loro audience è sacro bollino doc di qualità; ma l’audience di quelli che loro combattono con tanto coraggioso sprezzo del pericolo è pura deiezione di quadrupede.

Perché bisogna mettersi d’accordo, insomma: se l’audience è un criterio su cui si misura l’eccellenza, allora i voti sono la scala graduata del merito politico.
La frase non piace?
Oh che peccato.