saviano, la violenza e la «servitudine»

Ci ho pensato per un bel po’.
E poi ho deciso di scrivere.
Ho deciso di scrivere che la cosiddetta lettera che Roberto Saviano ha voluto indirizzare per il gentile tramite di Repubblica (che già d’altronde ospitò, su tutt’altro versante letterario, la lettera di Miriam Bartolini-Veronica Lario al marito fedifrago) a coloro che chiama «i ragazzi del movimento» mi pare, per leggerezza e superficialità, tragicamente irritante.

Ogni gesto violento è stato un voto di fiducia in più dato al governo Berlusconi.
I caschi, le mazze, i veicoli bruciati, le sciarpe a coprire i visi: tutto questo non appartiene a chi sta cercando in ogni modo di mostrare un’altra Italia.

A prescindere dalla facilità con cui io adesso posso corrivamente argomentare che l’utilizzo del verbo «mostrare» attesta un lapsus al limite della gaffe («mostrare» non è «essere», no? E prima di «mostrare» bisogna «essere», vero? E che cosa si possa collettivamente «essere» occorre dirselo nella pratica quotidiana di gesti condivisi, vero?), mi viene in mente un classico delle relazioni sindacali.

Esempio.
L’azienda forza su qualcosa.
Vìola un diritto, per esempio, minacciando che – in assenza di una rapida accettazione della rappresentanza sindacale – le conseguenze saranno pesanti.
Non precisa quali potranno essere; magari in un incontro con i sindacalisti presenta solo qualche vago scenario a titolo di esempio. Non so: cose come «potrebbe accadere che se non facciamo così l’azienda chiuderà l’anno con perdite così forti da costringerci a domandarci se saremo in grado di mantenere i livelli occupazionali».

Vago, no?
La rappresentanza sindacale ne parla all’assemblea dei lavoratori.
L’assemblea gela.
Tutti si sentono soli ed esposti: coloro che dovrebbero difenderli sono lì, davanti a loro, a dichiarare la propria impotenza di fronte a chi può far di chiunque ciò che vuole.

Singolarmente presi, tutti tesi al «si salvi chi può».
Collettivamente presi, tutti terrorizzati.
Interventi spaventati, interlocutori.
Fino a quando il più filo-aziendalista, quello che magari il suo destino l’ha già personalmente contrattato o pensa di potercisi dedicare con profitto di lì a poco, magari rivendendosi il risultato di aver piegato le resistenze dei colleghi, non compie il passo definitivo, quello oltre il quale un’assemblea non torna più indietro.
«L’azienda ha il potere di licenziarci tutti in qualunque momento», dice. «Siamo costretti ad accettare quel che ha proposto al sindacato interno, cercando magari di ottenere la promessa di qualche soldo in più».

Fatto.
Siamo impotenti.
La dialettica fra le parti non esiste più.
Il sindacato interno non serve a niente, se non a trasmettere messaggi. E i messaggi sono: noi siamo impotenti, voi siete impotenti ciascuno di noi è impotente.
Le parti non esistono più, nemmeno quelle.
C’è una parte sola: quella di chi può.

Non è vero, naturalmente.
Nei fatti se non nella percezione di sé, ce n’è anche un’altra: quella che potrebbe, almeno, provare.
Ma tutti sono ormai persuasi di due cose: la prima è che la parte non c’è più, perché è rimasta una somma di individui che hanno fissato ciascuno per sé il prezzo della propria sopravvivenza; la seconda è che se anche l’altra parte provasse a potere, allora la colpa delle terribili conseguenze paventate dall’azienda sarebbe proprio di chi ha provato a potere.

La conseguenza è paradossale: per dimostrare che siamo forti e sappiamo sopravvivere alle minacce, dobbiamo cedere alle minacce.
Diversamente, diamo all’azienda un pretesto per vendicarsi, e questo attesterebbe la nostra debolezza.

Ho perso il conto delle occasioni in cui le assemblee di redazione mi hanno messo di fronte a questo angosciante dato di fatto: che siamo servi dentro, e che più ancora che dir quel che ci interessa, e più ancora che trovare le strade per dire quel che ci interessa, abbiamo a cuore la compiacenza verso il potere, mascherandola dietro le oscene fattezze del realismo.

A me la lettera di Saviano sembra l’intervento del collega leccaculo che si alza e dice «non dobbiamo dar pretesti all’azienda per mettere in atto le sue minacce. Non possiamo scioperare, sennò l’azienda si arrabbia, e noi non otterremo mai il nostro risultato. L’azienda non cerca che un pretesto per mettere in pratica le sue minacce, e se scioperiamo facciamo il suo gioco».

Questo genere di interventi tende a dimenticare che l’azienda non ha solamente minacciato un danno futuro (quello che i servi zelanti tentano di evitare per il bene di tutti), ma ha anche già azzerato dei diritti, e che ciò a cui l’assemblea dei lavoratori è eventualmente chiamata è una reazione alla lesione di quei diritti, e non la prevenzione di ulteriori rappresaglie.

Ecco.
Noi, mi sembra, siamo a questo.
Io non voglio farne una questione generazionale come pare voler fare Paolo in questa bellissima lettera a Saviano.
Però vorrei dire che non credo che nessuno possa permettersi il lusso di ignorare che quando la politica (e le relazioni sindacali) chiudono la porta a ogni possibilità di dialettica negoziale e quando tutto si gioca su un piano di potere bruto, l’unica via che resta aperta al dissenso – piaccia oppure no, e a me non piace; ma non riesco a vedere alcuna alternativa teoricamente argomentabile – è l’esercizio della violenza.

La violenza non mi piace affatto.
Ma non mi piace nemmeno che a poco a poco mi tolgano l’aria che respiro e quando io tento di reagire mi dicano che mi devo tenere ben stretta quella poca aria che mi è rimasta, altrimenti finirò per vedermi sottrarre anche il minimo sindacale di aria respirabile.

Non mi piace cedere ai ricatti.
Non mi piace dire le bugie.
E Saviano non sa niente, non può sapere niente, dei «cinquanta, cento imbecilli» che si sono «sfogati» su un camioncino o con una sassaiola.
Non può sapere se erano ciò che lui chiama «ragazzi del movimento», infiltrati, cinquantenni, bastardi di qualunque tipo, o gente semplicemente esasperata alla quale non sta neanche bene che un illustre professorino trentenne cerchi di insegnare la buona educazione.

Saviano non può sapere se sono «imbecilli», cioè «scemi di cervello» o no.
Non può sapere con quanta ostinazione possono aver provato ad argomentare il loro punto di vista; con quanta fatica possono aver cercato un interlocutore; o con quanta facilità siano stati messi lì da chi poteva avere ogni teorico interesse a far di loro il capro espiatorio di ogni reazione: della reazione delle – chiamiamole – istituzioni, e anche delle reazioni dei sapienti moderati, di quelli che la sanno lunga.

Quando non c’è terreno di negoziazione, caro Saviano, si possono fare poche cose.
Si può fuggire, fisicamente o no.
Si può accettare la propria nichilizzazione illudendosi che più politi si sia più si sarà presi in considerazione dal Sire-Che-Tutto-Può.
O ci si può incazzare pesanti, duri, anche se – fortunatamente – senza ammazzare nessuno.

Incazzarsi non è mai bello, e probabilmente non è mai nemmeno troppo educato.
Ma a volte è l’unica strada che rimane.
Ignorarlo è da imbecilli.
Ignorarlo è da servi.
Ignorarlo è come non leggere la realtà.
Ignorarlo è come nascondere la testa sotto la sabbia.
Ignorarlo è illudere se stessi – e fin qui niente di male – e illudere gli altri (e se si ha un’immagine pubblica, gli altri che ti ascoltano son tanti) che al di fuori di quel che si sta costruendo con la, e grazie alla, propria visibilità non c’è niente.
Ignorarlo è un lapsus che dice «al di là di me, il niente».
Vorrei dire a Saviano che l’unica cosa che gli consente di dispensare spiccioli di speranza dalle pagine di Repubblica è il fatto che egli ha un posto nell’immaginario televisivo.
C’è un enorme numero di persone che questa speranza non ce l’hanno, e vedono con molta più nitidezza la miseria politica ed esistenziale del proprio futuro di cittadini.

«Questo governo in difficoltà cercherà con ogni mezzo di delegittimare chi scende in strada», scrive Saviano.
Ho una domanda per lui. Anzi, ne ho due.
La prima è questa: ma tu pensi veramente che il governo debba legittimare una protesta? Pensi davvero che senza legittimazione dell’esecutivo non ci sia realtà per così dire parlamentare?
La seconda è questa: ma tu pensi davvero che le persone incazzate abbiano bisogno di essere legittimate dal potere?

Infine.
Chi volesse utilizzare la scorciatoia delle categorie interpretative semplificate, potrebbe ora ben sostenere che a dare a Gasparri una buona giustificazione – una delle tante, per carità – in virtù della quale chiedere una schedatura di massa e una raffica di arresti preventivi è stato proprio Saviano.
È nato prima l’uovo o la gallina?
Sono i «cattivi» a dare i pretesti ai «buoni» (dovunque collocati, gli uni e gli altri), o i «cattivi» a cercarli da sé, nelle azioni e nelle parole dei «buoni»?