su, bambini: in silenzio, in fila per due

Quanto è importante, da un po’, la censura morale che ogni bravo cittadino deve all’insulto.
Sembra che dire «pecorella» a un carabiniere – che di certo ha tutte le ragioni per sentirsi provocato e infastidito, ma altrettanto certamente ha il dovere di non reagire alle provocazioni, poiché il suo lavoro consiste nella tutela dell’«ordine pubblico» e non nell’accettazione delle sfide a chi è più maschio – sia una cosa gravissima.
Come se fossimo tutti in salottini rivestiti di velluto, a bere il tè in tazze di finissima porcellana decorata.

«Oh, baronessa, non c’è più rispetto».

In televisione si insultano da anni.
I nostri diritti di cittadini e lavoratori ce li stanno togliendo uno alla volta.
Gli spazi per l’esercizio di un pensiero eterodosso sono sempre più stretti, e adesso – toh – scopriamo che il vero problema è la buona educazione; è la forma.
Non si dice, bambini. Pecorella non si dice.

Ma cosa c’è dentro quella parola?
Che strumenti ha un cittadino per protestare contro il potere?
E quanto conta il differenziale di potere?

Tutti perbene, siamo.
Solidarietà all’eroe carabiniere.
Eh, certo che anche quell’insulto lì poteva ben risparmiarselo, questo no-tav.
Eh, quest’Italia dei «no» e dei «tabù»…
Eh, una minoranza che paralizza la modernizzazione del Paese…

Questa non è violenza: è buon senso, è amabilità borghese.
È la vocina bassa di chi non ha bisogno né di dire «pecorella» a nessuno né di urlare, perché – tanto – lo stanno a sentire.

E gli altri, quelli che urlano, sono maleducati, e passano automaticamente dalla parte del torto.
Un po’ di buone maniere, ragazzi. Le vostre mamme non vi hanno insegnato niente?