ruoli, occhi, pelle e corpo

Di seguito, l’intervento alla tavola rotonda che ha concluso i lavori del convegno nazionale torinese del Centro milanese di terapia della famiglia, il 24 e 25 giugno 2011.

Quando mio marito e io eravamo solo collaboratori sentimentali con ritenuta d’acconto – poi c’è stato il contratto a tempo determinato, e ora siamo nella fase in cui per licenziarci ci serve la giusta causa anche se la nostra coppia è al di sotto dei quindici, come potrei dire?, facciamo «lavoratori» – una delle cose su cui ci capitava di scontrarci più di frequente riguardava la questione dei ruoli.
Del ruolo maschile e del ruolo femminile, intendo.

Lui è uno che nel ‘77 ha marciato per un mondo migliore; non è che fosse un tipastro reazionario, ecco.
Eppure, frequentando all’epoca un terapista il cui genere rifiuto di determinare – come del resto anch’esso, e mi riferisco al terapista – era entrato in questo trip «ruologico» che gli piaceva da matti.
Mio marito aveva un amico accanito sostenitore della distinzione dei ruoli in famiglia.

Era un ragazzo che aveva avuto alcune traversie familiari, così non mi stupivo poi molto di questa sua specie di deriva tradizionalista, benché anch’egli avesse marciato nel ‘77 per un mondo migliore, si considerasse un sincero democratico e fosse pieno di poster commoventi degli Inti-illimani e delle varie manifestazioni di piazza di tutti gli anni Settanta.

Comunque. Prima che perda il filo.
Litigavamo sul ruolo, dicevo.
(E anche sul maggioritario, ma adesso s’è finalmente ravveduto).
Io ero molto incerta se considerare che nelle sue parole ci fosse una qualche dose di verità oppure no.
C’era qualcosa che mi suggestionava, ma non ero in grado di isolare cosa, anche perché il terapista e l’amico non mi stavano simpatici, e non avrei mai corso il rischio – all’epoca – di dar ragione a qualcuno che non mi piaceva.
Ero molto scettica sull’idea di differenza sessuale. Non capivo in che modo si declinasse; come si esprimesse.
E soprattutto mi dava fastidio l’idea che qualcuno potesse farne un uso antifemminile, come l’amico e il terapista.
Sapevo solo una cosa: che ero assolutamente certa che quelli che sostengono che se il mondo fosse retto da donne, allora non ci sarebbe la guerra dicono una scemenza.

Poi è successo che sono rimasta incinta.
Ho passato i primi tre mesi domandandomi se veramente volevo avere un figlio, e sentendomi occupata da un usurpatore.
Allo scadere della dodicesima settimana, quella che la legge 194 fissa come limite per la possibilità di ricorrere all’aborto, mi sono accorta che avevo fatto con me stessa il solito gioco: per accettare qualcosa, per sentirla mia, per esserci veramente dentro, mi devo dare la possibilità di rifiutarla.

Dice: ma cosa c’entra con la questione dei ruoli? E soprattutto: cosa c’entra con la questione «terapia sistemica e questioni di genere», che è il titolo di questo convegno?
Dovrei dire: un momento, adesso ci arrivo. E invece, forse, la cosa più sensata è «non lo so, ma adesso vediamo».

Durante la gravidanza, che è stato un periodo fantastico, mi è successo che per la prima e probabilmente unica volta nella mia vita mi son sentita sincrona col mondo, in armonia con la storia dell’umanità.
Mi sentivo finalmente parte della marea delle vite che vanno e che vengono. Una ciocca dei capelli che si radunano nella treccia che è la storia di tutti noi.
Nel momento in cui mi rendevo conto che accettare l’idea di dare la vita, accettare l’idea di un figlio, è accettare l’idea della propria mortalità attraverso la speranza che ci sarà qualcuno che ci sopravvive, realizzavo per la prima volta quello di cui più tempo passa più sono convinta: che la vita si concentra in due cose.
Nel dare la vita e nel fare i conti con la morte
.
Vita vera e vita metaforica: e alludo alla creatività, per esempio.
Morte vera e morte metaforica: e alludo alla perdita, all’abbandono, all’isolamento.

È stato per me stupefacente vedere che in un convegno di due giorni focalizzato sull’impatto delle questioni di genere sulla terapia sistemica non si sia praticamente mai fatto riferimento alla maternità.
Dare la vita è una cosa di cui fanno esperienza le donne che hanno un figlio. Ma non importa che dal loro corpo un figlio nasca per davvero. La maternità è un approccio verso il mondo al quale per condizione primigenia ogni donna è necessariamente legata, per quanto inconsapevole intenda esserne.
Se lei vuole, può dare la vita.
Non importa che cause tecniche possano impedirglielo.
Non importa che la sua scelta possa alla fine essere diversa.
Non importa che i casi della vita la conducano altrove.
Importa che lei ha sempre pensato che avrebbe potuto.
E quella potenzialità, quel potere, sono quel che la fa donna.

Quante volte abbiamo sentito dire che per un uomo il figlio nascituro è un’astrazione e invece per una donna è una realtà fin dal momento in cui il test le conferma che è incinta?
È vero, è tutto vero.

Ma sulla questione del genere, e del ruolo, ovviamente non è tutto lì.
C’è dell’altro.

C’è dell’altro che ha a che fare con gli occhi di un altro che ti guardano e ti vedono donna, oppure uomo.

Ho scritto un racconto lungo, o un romanzo breve – io non la conosco, la differenza – in cui si racconta la storia di un uomo e di tre donne. Si intitola «L’Avvocato G.», è uscito per una casa editrice che si chiama Senzapatria.

Le donne sono tutte e tre donne con cui lui ha relazione sessuale.
Eppure, l’avvocato G. si rende conto di essere un uomo, un maschio, un bipede con specifiche e rilevanti attrattive sessuali tipicamente maschili solo quando gli occhi di una di queste donne glielo comunicano; solo attraverso il desiderio di una donna, insomma, si vede desiderabile.
E la donna lo seduce perché ha bisogno di scoprirsi titolare di specifiche e rilevanti attrattive sessuali tipicamente femminili, e sente – anche senza esserne consapevole – che per riappropriarsi di questa dimensione di sé ha bisogno degli occhi e della pelle di un uomo.

Perché per conquistare l’ingresso nella propria identità di genere – e immagino che per gli uomini e le donne omosessuali possa accadere qualcosa di analogo, sia pur con partner del loro stesso sesso – è necessario transitare attraverso la sensorialità altrui.
Per conquistare la propria sensorialità, i propri sensi, e il proprio senso, probabilmente, è necessaria la sensorialità altrui.
L’identità, insomma, assume senso nella relazione; nello sguardo e nel tocco di un altro che ti fanno percepire quel che sei, o forse quel che puoi essere.

Quando sono andata a scegliere il mio vestito da sposa, ero incerta fra tre modelli.
Due erano di Armani, che è uno stilista che io adoro.
Il terzo era di un disegnatore londinese che non conoscevo: si chiama David Fielden. Quando sono andata a Londra ho bussato alle porte dell’atelier sperando che mi lasciassero entrare, ma non c’è stato verso.

Il primo modello di Armani era una bellissima tunica a bretelle di crespo di seta color burro dal taglio lievemente godet.
Il secondo modello di Armani era un meraviglioso tailleur pantalone dello stesso colore.
Stavo bene con entrambi.

Guardandomi allo specchio con quegli abiti addosso io mi sono resa conto che io ero anche quella cosa lì, una donna diversa da quella che avevo sempre pensato di essere.
Ho pensato: madonna, ma io sono bella (e questo serve anche a capire come mai tante donne così così sembrano bellissime solo perché il denaro consente loro l’accesso a vestiti che sono in armonia col loro corpo).

La tunica, però, mi pareva completamente priva della dimensione di festa che per me c’era nel mio matrimonio. Era come un tentativo di passare sottotraccia; mi sembrava che fosse un modo per dire a me stessa «sì, va bene, Fede: ti sposi, ma ricordati dell’importanza della sobrietà».

Il tailleur, per quanto avessi pensato di accompagnarlo con un bouquet eccentrico di rose rosse, era perfetto per una tipa che era appena uscita dal suo ufficio tutto acciaio e cristallo e s’era presa una mezz’ora di tempo per adempiere a questa cerimonia, e poi chiedo scusa ma devo tornare al lavoro che arrivano dei clienti importanti. Bello, bellissimo. Ma non aveva niente a che fare con me.

L’abito di Fielden era quello che mai avrei pensato di comperare. Senza spalline, busto aderente, punto vita ben segnato e gonna vaporosa e morbida di seta leggera, tenuta ampia da molti strati sottostanti di voile di seta.

Era una festa. Con dei fiori bianchi fatti a mano messi a coprire la cerniera sulla schiena, e poi a fare da cascata – dietro – sulla gonna, e una stola di seta sulla testa, beh, quel bouquet rosso era perfetto.
Era un vestito che mi rendeva sorridente, dava al mio corpo un’aria felice. E mi ha dato così fiducia in me stessa da chiedere alla sarta di abbassare la scollatura, perché – tanto – mi sposavo in Comune.

Ecco.
Succede così anche per l’ingresso sensoriale nella propria identità di genere, credo.
Tutti noi sappiamo se siamo maschi o femmine da sempre, naturalmente; e indipendentemente dal fatto che proviamo desiderio per persone di sesso opposto o dello stesso sesso.
Ma diventiamo sensorialmente femmine o maschi negli occhi di un altro che nello sguardo ci comunica il modo in cui ci vede e ci percepisce, e nelle mani di un altro che nel tatto ci comunica il modo in cui ci sente.
Proprio come con i vestiti.

Quando ti guardi allo specchio in un abito ben tagliato, ben cucito, con la forma adatta alla stoffa di cui è fatto, e con la sagoma giusta per il tuo corpo, ti dici «ma quella sono io?». E scopri che sì, quella sei proprio tu.
Sei una tu possibile.
Sei una delle possibili tu
.

E, incidentalmente, quando si parla di tradimento, a me viene sempre da pensare questa cosa che adesso dico; non ne so uscire.
«Tradimento di chi?», mi viene da domandarmi. «Ma se gli occhi di un altro portano a galla pezzi di una te diversa o di un te diverso, chi sta tradendo chi?».

Capisco che se mai dovesse succedermi di sentirmi dire una cosa del genere da mio marito, beh, ecco, troverei qualcosa da eccepire.
Però il motivo per cui se mi dicono la parola «tradimento» io non visualizzo l’immagine di una relazione «esterna» a una storia principale (e poi ci sarebbe anche da vedere se ha senso parlare di storia «esterna», ma vabbè) è questo: perché i possibili tu sono sempre più di uno.

Quand’ero piccola, mi specchiavo sempre nelle vetrine.
Mio padre mi prendeva in giro affettuosamente, dicendomi che ero vanitosa.
Non che non sia vero; però non mi guardavo per quello.
Mi guardavo nelle vetrine per vedere l’effetto che facevo dal di fuori, per capire se l’effetto che facevo dal di fuori somigliava all’effetto che a me stessa facevo dal di dentro.

Se non c’è un occhio o una mano altrui il cui intervento esterno sia immediatamente lecito o possibile, bastano anche uno specchio o una vetrina per cominciare a dirci delle cose che abbiamo bisogno di sapere.
Solo che non riusciamo a barare così bene, e la percezione che da fuori le vetrine ci rimandano di noi stessi – quando, guardandoci, cerchiamo invano di coglierci di sorpresa – risente della percezione che noi di noi stessi abbiamo da dentro.

Come con la voce, no? Registrata non ci sembra nostra, eppure gli altri la sentono così.
Per capire che voce abbiamo – o meglio: che voce possiamo avere – dobbiamo ascoltarla dal di fuori, altrimenti la sentiamo anche attraverso le nostre ossa…

Torniamo ai ruoli, allora.
Quand’è nato nostro figlio, mio marito era estremamente coinvolto nel suo accudimento. Ce n’era bisogno, perché la mia situazione lavorativa era avventurosa, precaria ed esigente (e lasciamo perdere i sensi di colpa, perché per queste cose si paga uno di voi e vabbè), ma io non capivo cosa fosse che non mi tornava.
Per un po’ ho pensato che mi stesse usurpando le funzioni; che fosse un problema di furto, insomma, e che esserne vittima non mi piacesse.
Poi, a poco a poco, mi sono resa conto di una cosa.
La strada, però, è stata lunga ed è passata per una via tangenziale.

Ritrovatami madre, mi è scattato istantaneamente un meccanismo di ribellione alla possibilità che la mia nuova identità assumesse contorni sacrali; quella cosa che quando una donna diventa mamma, beh, insomma, ha in testa una sua bella aureola e può diventare anche tendenzialmente grassa e laida perché tanto un uomo l’ha acchiappato e un figlio se l’è fatto.
Sembrerà pura malevolenza, la mia; ma la madre di un compagno di classe di mio figlio me lo disse esplicitamente, un giorno. Mi disse che lei da quando era nato il figlio aveva cominciato a non trattenersi più col cibo, perché quel che doveva fare ormai l’aveva fatto.
Ecco.
A me sembrava invece di avere da fare un sacco di altre cose.

Così, m’è venuto spontaneo pensare che, finalmente, visto che ormai ero diventata «santa mamma», potevo anche confrontarmi con parti di me meno sante o sacrali ma di sicuro più sacre.
Come, per esempio, il contatto con la mia femminilità, la valorizzazione di ciò che i cattolici chiamerebbero coniugalità, la spinta a «rivirilizzare» e a «rifemminilizzare» la dialettica sensuale di coppia.

Solo che con quest’uomo che cambiava pannolini e pretendeva di stabilire quale fosse la giusta distanza fra una poppata e l’altra, o la pesantezza della tutina da far indossare al nostro bambino, io non riuscivo a ritrovare sintonia.

Un giorno, parlando con lui, m’è venuta fuori una cosa che non sapevo neanche di avere pensato. Questa cosa delle parole o dei pensieri con i quali mi sorprendo mi fa spesso dire che sono più intelligente di me, e non mi è ben chiaro se questa frase significhi che ho una sindrome bipolare. Tenderei ad escluderlo, però chi può mai dire.
Cosa m’è venuto fuori, allora?
Una frase tremenda: «Io non posso nemmeno pensare di avere una relazione sessuale con la madre di mio figlio».

Qualunque cosa io gli stessi veramente dicendo con quella frase, era una cosa pesante, che ha dissestato gli equilibri per qualche tempo; fino a quando entrambi non abbiamo capito che nell’aggressività – forse solo apparente – che c’era dentro, si nascondevano enormi potenzialità per riconoscerci nuovamente maschio e femmina anche dopo che eravamo diventati padre e madre.

È stato in quest’occasione che mi si è ripresentato – e con tutt’altre fattezze – il problema del «ruolo» di cui Marco mi parlava all’inizio della nostra storia d’amore, quando eravamo ancora «collaboratori sentimentali».

Ho pensato: «Mio dio: sto forse dicendo a me stessa che avevano ragione le nostre nonne? O, peggio, che hanno ragione i reazionari sessisti? O, peggissimo, che il modello femminile seduttivo è quello a cui le donne sono inchiodate per necessità?».

È chiaro che, oltre che in termini di sensualità e di identità, la questione del ruolo finisce per essere inquadrata anche all’interno di una dinamica di potere.

Esaminata secondo la lente del potere, quale lento lavorio avrebbe comportato dentro di noi, e nella nostra relazione, quella mia frase e le conseguenze che essa aveva messo in moto?
C’era il rischio che io finissi imprigionata nel «modello-autoreggenti», sorriso domestico garantito, aspirapolvere passato, sì, tesoro, è tutto pronto a tavola e la camicia azzurra è stirata nel primo cassetto?
Forse.
Forse c’era.

Ma la questione del ruolo, dei sensi, della sensorialità, dell’identità e del potere va considerata e vissuta una questione in perenne movimento dialettico.
In altre parole, quel che dovevamo evitare era che i ruoli si fermassero; che i ruoli ci mettessero in prigione.
Che la seduzione fosse sempre esercizio di inferiorità, per esempio, e non – a volte – anche esercizio di superiorità.
Bisognava fare che una volta comando io e una volta comandi tu. Che una volta guidi tu e un’altra volta guido io.
In questa chiave, il ruolo aiuta enormemente nella dialettica di coppia, perché – per esempio – rende chiaro anche al piccolo o alla piccola di casa che esistono ruoli, e che non è vero che essere uguali è un valore. Ma allo stesso tempo, che i ruoli e il potere non sono fissi, eterni, perpetui, immutabili.

E, soprattutto, che la dialettica fra un uomo e una donna che sono anche un padre e una madre, e anche un corpo e una pelle maschile e un corpo e una pelle femminile prosegue e si muove tenendo in conto la presenza di un figlio, ma senza usarlo per diventare l’uno estraneo alla pelle dell’altra.
Come due mamme, o due padri, dello stesso figlio.

E infine: una postilla.
In questa faccenda del modello unico di bellezza femminile del quale tanto si parla; in questa faccenda del «corpo delle donne», io vedo un baco.
Tutti ne parliamo come se fosse un problema di modelli.
No.
È un problema di forza individuale dei genitori, non di (soli) modelli.
Il problema non è estetico, non è una questione morale. Non è semplicemente una questione di «femminismo», «antifemminismo» o «sessismo».
È quanta forza hanno i padri e le madri delle ragazze e dei ragazzi; con quanta dialettica sanno muovere la stasi e la fissità dei loro ruoli.

Non dico questo per il piacere di ridurre tutto al piano individuale, ma – anzi – per dare a quel che succede un valore relazionale.
Perché ridurre tutto al piano inviduale è proprio ciò che fanno coloro che continuano a parlare dell’uso del corpo della donna come se fosse un problema del quale si può discutere su un settimanale femminile mentre ci si asciuga i capelli col casco (ci sono ancora i caschi?).
Ho letto libri che avevano ricette meravigliose per evitare che il corpo delle donne venisse usato così malamente, in modo così umiliante.
Ah.
Che bello.

E quando una legge vieta l’uso del corpo delle donne per la pubblicità che cosa otteniamo, noi che quel corpo in pubblicità l’abbiamo visto, ormai, per anni?
Che lo faremo ritornare una cosa segreta, di cui non si dice, non si parla; con cui non si possono fare i conti.

Non succederà quello che speriamo, ovvero che saremo in grado – proibendone l’esibizione per così dire impropria – di renderlo un «luogo» metaforico finalmente rispettabile e rispettato; succederà solo che lo riconsegneremo all’indicibile, al territorio del tabù.
Perché – anche qui – il problema principale sta negli occhi di chi guarda.
Non che non ci sia una componente fattuale, oggettiva; ma è a quegli occhi che noi dobbiamo parlare. Non ci sono scorciatoie.