azienda, identità e universi concentrazionari

soli_in_uno_stagnoLeggevo sul Corriere l’articolo che tratta del libro in cui l’ex assistente personale del proprietario dell’Ikea parla dell’azienda in cui lavorava come di un luogo in cui vigevano pratiche razziste e vessatorie.

Mi ha colpito un commento, che parla di «retoriche del management», «ideologia totalitaria» e «universo concentrazionario aziendale».

È vero: quello che è successo, in Italia ma evidentemente anche altrove, è che l’unica forma di «collettivo» praticabile è diventato l’azienda, parola che non per caso io trovo sempre più spesso scritta con l’iniziale maiuscola, a significare deferenza e centralità.

Le mutevoli e insensate gerarchie interne al mondo chiuso e impermeabile delle aziende diventano fonte unica a cui attingere e da cui desumere la propria identità, sorgente preferenziale a cui chiedere conferme su di sé, auctoritas che conferisce legittimazione e diritto di vivere: se si è merde dentro l’organizzazione, ci si sente (ci si deve sentire) merde anche fuori.
Se, inaspettata o lungamente perseguita con metodi tangenziali e faticosi, nasce ciò che sembra una (provvisoria e utilitaristica) alleanza con il kapò momentaneamente vincente, si vive un’eccitazione parossistica da rivalutazione di sé.
Come cortigiane ammaestrate nell’arte della seduzione senza desiderio, i vertici o i segmenti intermedi delle gerarchie aziendali fanno lampeggiare scenari di delizie perpetue, dipingono tele in cui il loro amore per te ti eleva alla deificazione; e tu – dalla tua nuvoletta di zucchero filato – dimentichi che in azienda l’alleanza vale solo fino a quando si è utili al kapò.


L’azienda è un universo concentrazionario, sì: il dentro conta infinitamente più del fuori, che resta residuale, tanto in termini di tempo quanto di dedizione.
Il «dentro» è l’unico luogo in cui la vita sembra (deve) avere senso; e al di sotto di un’apparente immutabilità, la variazione di regole e prassi è continua e incessante, procede per forzature progressive a volte minimali e appena percepibili, e altre volte brusche e macroscopiche.

I piccoli cambiamenti servono a spostare l’asticella del tollerabile in modo da render digeribili le modifiche presenti e future, e da poter addirittura negare – di fronte ad eventuali e sempre possibili minime contestazioni – che si sia mai verificata alcuna variazione.

Questo, anzi, consente all’azienda di additare al pubblico discredito (interno, giacché l’unica dimensione «pubblica» aziendalmente possibile è quella interna) chiunque avanzi un argomento qualunque contro la modifica che nessuno confesserà mai avvenuta, almeno fino a quando non potrà giustificarla con cause di forza maggiore che tuttavia – non temere, amico mio – collocano me azienda e te dipendente dalla stessa parte, non dubitarne mai.

Il messaggio che passa è che se taci e ti adegui le impercettibili modifiche non ti riguardano; tu bravo cagnolino puoi continuare a ricevere lo stesso numero di ossi pro-die, mentre invece chi parla ne avrà di meno.

Poi, quando arriva una variazione più grande – perché immancabilmente arriva – funziona la reazione pavloviana (se non mi oppongo non mi succede niente di male; se mi oppongo divento un paria: dunque, non mi oppongo) e scatta l’autodifesa consolatoria: «Vedrai/vedrete, questa sembra un cambiamento capace di modificare la mia/le vostre vita/vite, ma in realtà è come tutte le altre volte. Come? Qualcuno pensa che sia l’inizio della fine? Ma no! Non bisogna esagerare, è sbagliato pensare a dietrologie. Non accadrà niente nemmeno stavolta. Piccoli aggiustamenti e tutto resta come prima».

Nell’assenza di reazioni al cambiamento, in genere peggiorativo, l’azienda persegue i suoi scopi assumendo alla bisogna le identità più varie: mamma, matrigna, carnefice, alleato delle tue ambizioni, amico, figliolo bisognoso della tua generosità.

Ai tempi della mia adolescenza, sentivo dire che la droga circolava abbondante tra i giovani perché questo era un buon sistema per distrarre le energie dei ragazzi dalla politica e dal tentativo per quanto velleitario di cambiare le cose.
Non so se quell’analisi fosse vera (così come non so se ha ragione l’ex assistente del «signor Ikea», naturalmente), però mi sembra che si presti bene a spiegare come funzionano le cose nelle aziende: tutte le energie delle persone vengono obbligatoriamente dirottate verso l’obiettivo della sopravvivenza interna (per qualcuno è la carriera, per molti di più il bisogno di non essere metaforicamente uccisi).
In fondo, la sopravvivenza interna è l’unica sopravvivenza che conta, perché il fuori non esiste più: l’azienda ha chiuso le finestre e tu non hai nessuna voglia di riaprirle, perché ci vuol fatica, e ti restano solo le energie per sopravvivere.

Ecco cos’ha realizzato chi ha politicamente massacrato la centralità (politica, non esistenziale) del lavoro.
Ecco cos’ha ottenuto chi ha spuntato le armi sindacali.
Ecco cos’ha concretizzato chi ha introdotto la retorica dell’impresa e dell’imprenditorialità come luogo mitico della meritocrazia.

Togli al lavoratore l’identità sociale di lavoratore e avrai un servo.
Sciocco, o felice, o inconsapevole, o ferocemente renitente.
Che differenza fa? È sempre e solo un servo, e servono solo quelli.